Tuesday, July 15, 2008

Viaggi: Sudafrica






Un magnifico viaggio attraverso il paese dell'arcobaleno, una natura stupenda e delle possibilità incredibili di sviluppo.

Thursday, November 08, 2007

Viaggi: Galles






A settembre in occasione della coppa del mondo di Rugby, assieme alla mia compagna, siamo stati in galles.
La gente ci è parsa cordiale e disponibile ed i paesaggi sono da sogno!

Friday, June 29, 2007

OSPITI : Molteni



Terrore nella foresta03/03/2006di Molteni (Invia un messaggio all'autore)
Terrore nella foresta.Loro non m’avevano visto ma io si. Evidentemente ero più agitato di loro, più della maggior parte della gente, e solo raramente la cosa era un vantaggio.. Se serviva, adesso era un vantaggio. Sbucarono da dietro un gruppo di grosse querce in fondo a un canalone. Io ero in alto, a favore. Mi appiattii dietro un leccio e rimasi a spiarli. Trattenei il respiro e li osservai muoversi da dietro un tronco. Un lupo. Sapete, dentro a un bosco le cose sono un po’ diverse. Provate a immaginare migliaia di piccoli rumori sovrapposti, incessanti. Una volta fuori da lì, l’unico ricordo è il silenzio. Battiti d’ali, richiami improvvisi d’uccelli, roditori, scoiattoli e rettili che frusciano tra il fogliame del sottobosco. Ma l’elemento in assoluto dominante è il silenzio. Solo i vostri piedi sulle foglie e i vostri poveri pensieri. E poi quella specie di penombra, quella foschia costante che rende le ore tutte uguali. I colori cambiano tutti dentro una tonalità bruna, imprecisa. Però mentre puntate verso le foreste il sole picchia sui vetri dell’auto, infuoca l’abitacolo. La luce è intensa, il cielo sgombro. Le case e gli alberi sono netti, colorati, ritagliati contro l’orizzonte. Luci, colori, clacson. Tutto chiaro. Tutta roba che conoscete bene. Siete di buon umore, vi sentite ben disposti verso il prossimo. E’ una bella giornata. Per strada è sempre difficile immaginare come sarà là dentro. E’ difficile immaginare il buio in piena luce, come il dolore, mentre si gode.Fatti cento metri dentro la macchia, le cose cambiano. Il sole non scalda, la luce è bassa, ammuffita. Solo qualche sottile filo luminoso che fora le foglia e incendia un cerchietto a terra, ma non basta. Foglie marce. Brividi. L’umido trapassa i vestiti. Foschia, rumori di esseri invisibili. Dopo altri cinquanta metri vi rendete conto che il vostro umore è decisamente cambiato. Non è paura, non lo sapete cos’è, ma vi sentite diversi. Bene. Io drizzavo il pelo e alleggerivo il passo, spalancavo gli occhi e procedevo. Niente pensieri, solo pelo e orecchie dritte. E quindi li vidi per primo, in fondo al canalone. Non mi piacquero. I funghi erano una scusa. Mi rintanavo sui monti per fuggire dai miei simili e quando ne incontravo qualcuno nel fitto della foresta mi faceva sempre un cattivo effetto. E quelli erano brutti. Due facce ostili. Pesanti. Uno giovane e l’altro più vecchio. Padre e figlio forse. Belli robusti, tozzi, silenziosi. Brutti e pericolosi. Spandevano intorno un alone di diffidenza e odio per un raggio di cinquecento metri abbondanti. I coltelli sporchi di terra nella destra. Disegnavano intorno un cerchio di morte. Il bosco era infettato dalla loro presenza, e non mi sbagliavo. Là dentro certe cose si sentono bene. Portavano addosso due magliacce di lana logora, calzoni lisi, scarponi pesanti, i canestri stracolmi. Distinsi chiaramente russole e porcini. Guardai nel mio canestro. C’erano otto funghi senza merito, un paio anche trapassati e pieni di vermi. Si muovevano tra i rovi con sicurezza. Erano del posto. Montanari ostili e diffidenti. All’occorrenza ladri e bracconieri. Ottusi, crudeli.La spietata gente di città. E quella di montagna allora? pure peggio, solo che meno rumorosa. Stanno attento a evitare i clamori e non sconfinano mai. Non ce li troverete a rubare in casa vostra o in un ufficio postale armi in pugno, questo è certo. Ma in casa loro la musica cambia. Odiano gli intrusi e sono senza scrupoli. Basta saperlo. Io lo sapevo, sapevo un sacco di cose, tutte utili, ma non ne traevo mai giovamento. Sapevo come la pensavano, ero io l’intruso, ma avevo diritto quanto loro di stare lì. Il bosco era di tutti, non dovevano infastidirmi. Insomma, li avevo presi male.Uscii da dietro il leccio e puntai verso di loro. Come mi mossi i montanari alzarono la testa e mi videro. Ero a trenta metri. S’innervosirono, ma fecero finta di niente. Tornarono a frugare tra le foglie. Furboni. Avanzai con calma sforzandomi di apparire rilassato, ma quelli non guardavano. Guardavano ovunque tranne che nella mia direzione. Accelerai giù per la scarpata. Fra un po’ l’avrebbero alzata la testa.Le sponde del canalone erano umide e scoscese. Faticavo a rimanere in piedi. Sentivo le suole partire sopra l’erba bagnata e avevo i muscoli delle cosce in fiamme. Ad ogni passo scivolavo e rischiavo di franare a valle. Quelli si muovevano con gran disinvoltura, senza nessuno sforzo apparente. Avanzai ancora. Continuarono a frugare in terra. Frugavano e mi slumavano da lontano. Quando s’accorsero che m’avvicinavo mi voltarono le spalle e s’allontanarono verso il fondo del canalone. Li avevo innervositi. Bene. La mia presenza gli stava rovinando la mattinata, ma non era mica il loro il bosco. Improvvisamente la sponda divenne più scoscesa. Dall’alto non sembrava. Mi fermai a osservare lo strapiombo. Era impraticabile. Come facevano quelli? Eppure continuavano a scendere. Le radici delle querce affioravano tra l’erba. Pensai di usarle come gradini. Allungai un piede e agganciai il tacco su una radica. Funzionava. Scesi per un pò con quel sistema. Poi misi un piede in vuoto. Credevo di aver visto una radice in mezzo all’erba, invece non c’era. Scivolai all’indietro ma non m’arresi. Sgambettai come un pazzo sopra l’erba viscida cercando di ritrovare l’equilibrio. A un certo punto le suole ritrovarono aderenza sopra a qualcosa di ruvido. Diedi un colpo di reni per tornare in verticale, ma spinsi troppo forte e mi catapultai in avanti nel vuoto. Feci una capriola completa in aria e atterrai di schiena. Una gran schienata. Scivolai per otto dieci metri e m’arrestai col culo contro un masso. Rimasi immobile qualche istante. Ero intontito, mi ronzavano le orecchie. Mi faceva male tutto. Chiusi gli occhi e scossi la testa. Avevo perso l’orientamento. Rimasi così per un po’, poi alzai la testa e mi resi conto che ero faccia a valle. Guardai verso il basso. I due umanoidi erano a dieci metri da me. Io ero sdraiato, intrecciato tra ai rovi. Non avevano nemmeno alzato la testa. E se ero grave? carogne. Mi guardai le gambe. Avevo i pantaloni strappati dall’orlo al ginocchio. Le tastai. Poi controllai più su. Mi toccai addosso. Controllai braccia e testa. Niente sangue. Sembrava tutto a posto, ero solo stordito. Ero sporco di fango fino ai capelli e i pantaloni erano da buttare. Mi sentivo spettinato, incrostato. Il canestro era rotolato quindici metri più a valle e nella caduta m’ero perso il coltello. Il coltelletto col manico d’osso. Perso per sempre. Ero affezionato a quel coltello. L’avevo comprato al mare, ce l’avevo da dieci anni. Perso. Ma ero tutto intero. Solo che non ci sentivo, era tutto ovattato, lontano. A un certo punto ebbi paura. Non ci sentivo più. Nella caduta m’ero lesionato l’udito. Infilai due dita nelle orecchie e provai a scuotere il meccanismo. Non ci sentivo più, ero sordo. Le infilai dentro e cominciai a scuotere. Ne uscirono due manciate di terra. Svuotai i padiglioni e automaticamente mi tornò l’udito. Mi alzai in piedi e mi diedi due botte per togliermi di dosso foglie e terriccio. Osservai il dirupo e operai un calcolo veloce di distanze e dislivelli, poi mi buttai giù per la scarpata a vita persa e a grossi balzi raggiunsi il mio canestro. I funghi non c’erano più. Le carogne mi lanciavano occhiate furtive dal fondo del canalone. Mi sembrò di sentirli ridere. Puntai verso di loro. Mi mossi in orizzontale scendendo un passo alla volta, con calma. Intanto finsi di cercare tra le foglie. Dietro un fascio di carpini vidi un gruppo di Russole Persicine. Non mortali, però tossiche. I sintomi dell’intossicazione più o meno erano quelli, nausea, vomito e diarrea. Il decorso dell’intossicazione di 10 – 12 ore. Le raccolsi tutte e le poggiai delicatamente sul fondo del canestro. Feci cinque metri e raccolsi tre Amanite Panterine : Tossiche. Danno luogo ad avvelenamenti abbastanza seri, con disturbi nervosi ed intestinali. Buttai tutto dentro al canestro. Ero a sei metri dai montanari. Mi voltavano le spalle di brutto. Erano nervosi. Li sentivo vibrare. Li raggiunsi e mi piazzai dietro di loro." Buongiorno. " Niente. Vibravano sempre più forte. Insistetti." Trovato qualcosa?..." non risposero." ...Niente? " Non rompevo i coglioni, volevo solo un contatto. Ma la verità e che erano due carogne, me n’ero accorto subito, da lontano. Dalle facce, dagli stracci luridi che portavano addosso, da come si muovevano. Ero lì per verificare.Mi avvicinai di più e misi il naso nel canestro di quello più vecchio. Gli stavo addosso. Puzzava di selvatico. Il canestro era stracolmo di Boletus Aereus. Porcini Neri. Mi tolse il canestro da sotto e mi fissò cattivo. Occhietti piccoli e acquosi da porco. Pelle infiammata da freddo e vento. Barba ispida di una settimana. Grosso coltellaccio nella destra. Non mi faceva nessuna paura." Ah, Però! Porcini? "" No. " rispose. Erano porcini, altrochè, i più pregiati. " E questi? Sono buoni? " gli piazzai il mio canestro davanti al muso. Buttò un’occhiata di sfuggita poi mi guardò in faccia." Buoni. " affermò. Si avvicinò anche quello più giovane. Guardò dentro pure lui. Si si, fece con la testa. Bastardi. Era pronti ad avvelenarmi." Siete sicuri che sono buoni? " presi su l’Amanite e me la girai davanti al naso " strano, ’sto fungo mi ricorda....non lo so, forse un fungo che ho visto in un libro,....proprio sicuri che sono buoni? "" Si " confermò il barbuto " buoni. "" Allora vado tranquillo, he? "Non risposero." Ma, dico, voi ve ne intendete? Mi posso fidare? "" Và a casa e facci un risotto se non ti fidi, e poi vedi. "" Non posso. Coi funghi non si scherza. Per questo l’ho chiesto a voi. Però, sapete com’è, è anche difficile fidarsi. Ci sono in giro certe carogne pronte a far crepare con la bava alla bocca un povero cristo, magari solo per non ritrovarselo tra i piedi la prossima volta. “Accusarono il colpo. S’irrigidirono e si fecero sotto. Alzarono le lame dei coltelli. Non me li puntavano, erano sempre bassi, ma prima le lame erano puntate a terra, adesso indicavano il mio ventre come aghi di bussole. Avevano due brutte facce. Fu come se le vedessi per la prima volta. In quel momento realizzai che ero da solo contro due e non avevo più il coltello. Mi venne in mente che non sapevo affatto con chi avevo a che fare. Mi venne in mente che ero un idiota. Se uno non lo conosci, agli incroci, nei locali, dentro a un vicolo, non sai mai con chi hai veramente a che fare. Ci vuole prudenza. Magari lo capisci che si tratta d’una carogna, ma non sai fino a che punto è pronto ad arrivare. Era una cosa che sapevo bene. Perchè commettevo sempre gli stessi errori? Potevo tranquillamente beccarmi due coltellate e finire in fondo al canalone. M’avrebbero trovato dopo quindici giorni mezzo divorato dai cinghiali. Sono cose che capitano tutti i giorni. Feci due passi indietro e mi misi a distanza di sicurezza. Quelli continuavano a fissarmi." Qualche problema ragazzi? "" Il bosco è tanto grande " disse quello vecchio " prendi quel sentiero e punta dall’altra parte. "" Cammino dove voglio. "" M’hai rotto i coglioni "" Si c’hai rotto i coglioni, non ti ci voglio qui intorno " fece l’altro " vedi di camminare, e alla svelta " alzò un altro po’ la lama. Erano pronti ad ammazzarmi, lo sentivo. Avevo beccato due balordi veri. Il problema è che in certe situazioni l’incazzatura supera sempre la paura. Ci fissammo per trenta lunghissimi secondi. Servirono a farmi ragionare. Non mi sembrava la giornata giusta per morire." Andate a cagare " risposi. Poi mi voltai e mi allontanai lentamente." Non ti ci voglio più vedere da queste parti, pezzo di merda! " gridò uno dei due.Tremavo dalla rabbia ma non mi voltai e non risposi niente. Erano due carogne autentiche, due assassini, non m’ero sbagliato. Ce n’era in giro una concentrazione altissima, erano praticamente più della metà. Spesso non ne avevano coscienza, si sentivano persino buoni. Ma io li vedevo. Ne incrociavo almeno un paio al giorno, pronti all’aggressione, all’offesa, all’omicidio. Spesso gli mancava solo l’occasione giusta per confermarsi. Erano più del cinquanta per cento. Qualcuno potrebbe pensare ingenuamente che se fosse possibile eliminare quella metà le cose su questo pianeta andrebbero decisamente meglio. Errore. E’ l’errore che commettono tutti i dittatori sanguinari che popolano le pagine di storia : eliminare la metà cattiva, la metà avversa e regnare per sempre incontrastati. E’ provato che non funziona. Una volta eliminata grosso modo quella metà, la parte rimanente si scinde rapidamente in due come una cellula tumorale generando di nuovo la metà cattiva opposta a quella buona, e non importa da che parte guardiate la cosa. Avrete sempre una metà avversa pronta a eliminarvi. Umanamente, politicamente, fisicamente. Dio deve essersi divertito un sacco a organizzare il tutto. Rendete grazie a dio. E’ l’unico padre che pretende grazie tutti i giorni, all’infinito, solo per averti messo al mondo e poi abbandonato per strada. Solo per uno schizzo di sperma supersonico nell’utero dell’immensità. Ma non avevo chiesto io di venire al mondo, non avevo da ringraziare nessuno, per essere chiari.Ero furioso, ed era colpa dei due montanari coi coltellacci sporchi di terra. Me l’ero data a gambe un’altra volta. Non mi piaceva scappare. Avevo voglia di tornare indietro e prenderli a bastonate, ma non l’avrei fatto, lo sapevo. La cosa mi faceva stare male. In quei casi me la prendevo sempre con dio. Gli umani, anche i peggiori, mi sembravano sempre troppo smarriti e spaventati. Non s’orientavano, non capivano, e allora sparavano nel mucchio. Avevo sempre la sensazione che non fosse colpa loro. O almeno, non tutta colpa loro. Con chi me la dovevo prendere? Non era tutta opera di dio? E allora era con lui che me la dovevo prendere. Camminai in mezzo alla macchia a testa bassa prendendo a calci funghi marci e rami secchi. Camminai parecchio. Forse passò più di un ora. Per calmarmi camminavo e camminavo, a testa bassa, senza direzione. Dopo un po’ cominciai a sentirmi stanco e in effetti mi calmai. A un certo punto mi fermai e alzai la testa. Ero sulla cresta di un colle, ma non riconoscevo nessuna delle vette che avevo intorno. Dove madonna ero finito. Cercai di restare calmo. Ripresi fiato e mi guardai intorno. Non riconoscevo niente. Quanti chilometri avevo fatto? C’era un silenzio spaventoso. Nemmeno gli uccelli s’azzardavano a cantare. Un brutto posto, con la luce intensa. Il sottobosco non c’era più, solo vecchie querce che spuntavano direttamente dal bianco della pietra. Gli alberi non avevano foglie. La luce entrava e colpiva come voleva. Strana luce. Un brutto posto. Mai visto niente del genere. Drizzai le orecchie e rimasi in ascolto. In lontananza non sentivo più i motori sulla statale. M’ero perso. Controllai l’orologio. Mezzogiorno e quaranta. Era dalle otto del mattino che camminavo. Ero distrutto. Dovunque mi trovassi non ce l’avrei fatta a tornare indietro. Mi guardai addosso. Avevo i pantaloni strappati ed ero coperto di fango. Il solo era a picco in un punto a caso nel cielo. L’Est poteva essere indifferentemente a destra o a sinistra, davanti o dietro. Mi venne in mente la storia del muschio sui tronchi degli alberi. Mi buttai addosso a una quercia e gli girai attorno. Niente muschio. Ne scelsi un’altra. Altro giro. Niente muschio, nessuna traccia d’umidità. Era il punto più secco e anonimo dell’Appennino. Riguardai in alto. Il sole stava sempre lì, in un punto a caso. Ma poi, a che servivano i punti cardinali, la macchina? Dov’era? Dove l’avevo lasciata? A Est? A Nord? M’ero perso, ma sul serio, perso, definitivamente. Lasciai cadere il canestro a terra, poi piegai la testa e lo guardai. Era vuoto, nemmeno un fungo. Capace che morivo anche di fame. Morto di fame, nell’entroterra appenninico. Ritrovato il corpo dagli uomini della forestale in avanzato stato di decomposizione. M’accasciai a terra e poi mi sdraiai. La vista del cielo m’innervosiva. Chiusi gli occhi e provai a rilassarmi. Non avevo paura, ero stanco.Mi venne in mente di quella volta a Firenze. Vent’anni. Ero talmente estraneo e spaesato che trovai la sede della facoltà ad Aprile. Ero arrivato in città ad Ottobre dell’anno prima. Alla mensa universitaria c’arrivai a Maggio. I miei compagni mi guardavano con sospetto. Mi tenevano a distanza. " Ma dove cavolo sei stato fin’ora? " " In giro. Non riuscivo a trovarvi. " Era vero.Una sera, dopo aver mangiato qualcosa in un bar, uscii per strada e cominciai a camminare. Non sapevo né da chi né dove andare. Ero solo. Non sentivo il bisogno di nessun luogo, di nessuna stanza. A un incrocio mi fermai e cominciai a guardarmi intorno. Ero al centro dell’incrocio, in pieno centro storico. Piovigginava e faceva freddo. Guardavo l’imbocco delle strade e non riuscivo a muovermi. Ero terrorizzato. Avrei voluto sceglierne una a caso e continuare a camminare, ma non potevo. Nessuna via aveva sbocchi. Continuai a girare su me stesso senza riuscire a muovermi. Ero perso, definitivamente. Rimasi lì a girarmi sotto la pioggia e cominciai a piangere. Piansi, lo ricordo bene. Non so dopo che accadde, probabilmente mi mossi in qualche direzione, forse entrai in un altro bar, ma quel momento lo ricordavo bene, un ricordo vivissimo.Adesso ero lì, sdraiato sopra le pietre, sporco di fango, con gli abiti a brandelli. Erano passati più di vent’anni ed ero ancora perso. La paura era sparita, ero solo stanco. Inutile, non riuscivo a orientarmi. Rimasi sdraiato sopra le pietre una mezz’ora e mi riposai. Non pensai a niente. Dopo un po’ mi venne una gran fame. Guardai l’orologio. Le una e mezza. Mi alzai e presi su il canestro. Era ora di andare, ma dove? Non lo sapevo. Mi ricordai che m’ero perso. Ero più che mai senza punti di riferimento. Poi mi venne un’idea : avevo il cellulare. Ci pensai meglio. Non era un idea. Non sapevo chi chiamare e se anche l’avessi saputo, che gli dicevo, dov’ero? In un bosco qualunque in cima a un monte dalle parti della statale? Non serviva a niente il cellulare. Ecco una situazione in cui il cellulare non serviva a niente. Dovevo ricordarmene per quando m’avrebbero detto un’altra volta che ormai del cellulare non se ne fa più a meno, e che serve sempre, e che comunque in qualunque situazione può tornare utile. Adesso sapevo cosa rispondere.Le prospettive non erano belle. Feci le dovute considerazioni. Avevo due possibilità : sdraiarmi di nuovo a terra e aspettare che succedesse qualcosa o morire d’inedia, oppure, scegliere una direzione a caso e cominciare a camminare. Avevo troppa fame, scelsi la seconda. Puntai una zona che secondo i miei calcoli doveva essere grosso modo l’ovest e cominciai a scendere. L’ovest mi ricordava qualcosa. Forse tempo indietro avevo fatto mente locale e allontanandomi dalla macchina avevo considerato che alle spalle lasciavo l’ovest. Ma non era detto. Dovevo comunque scendere. Prima avevo camminato in salita, me lo ricordavo, di conseguenza adesso dovevo scendere. Mi buttai giù per la costa. Dopo pochi metri la vegetazione divenne fittissima. I cespugli di ginepro mi flagellavano le cosce. All’andata avevo fatto certamente un’altra strada. Ogni due passi rimanevo intrappolato in un rovo di more. Le spine m’agganciavano tirando lunghi fili e aprendo falle nella mia maglia. Qualcuna riusciva ad arrivare alla carne. Non importava, me ne dovevo andare da lì. Continuai a districarmi tirando come un forsennato. Quella zona doveva pur finire prima o poi. Lottai come un disperato contro le migliaia di tentacoli spinosi. Mi tenevano, mi strappavano, mi frustavano la faccia, ma io andavo. Ero un cinghiale rincorso dai lupi. Alla fine uscii allo scoperto. Mi fermai e buttai il canestro a terra. Il sudore mi colava nei graffi e nelle ferite. Mi bruciava ogni centimetro di pelle. Ero arrivato in una specie di radura a fondovalle. Ovviamente non avevo idea di dove mi trovassi, ma era già qualcosa. Rimasi fermo qualche minuto a riprendere fiato. Intanto mi guardai in giro. Avevo davanti un fosso profondo. O andavo a destra o a sinistra, oppure lo saltavo. Avevo la sensazione che costeggiandolo mi sarei allontanato dalla meta. Decisi di saltarlo e di continuare dritto. Presi su il canestro e mi avvicinai. Mi fermai sul ciglio. Era profondo tre metri. Qualcuno si stava divertendo a farcirmi il percorso di ostacoli con difficoltà crescenti. Istintivamente cercai in alto, poi mi guardai attorno. Non c’era nessuno. Mi preparai a guadare. Sul fondo del canale scorreva mezzo metro d’acqua limpida e gelata. Il fondo del canale era largo un metro e mezzo, in cima quasi tre metri. Dovevo scendere in basso, saltare e risalire. Mi preparai a farlo. Forse era l’ultimo ostacolo, forse cominciava la strada facile, la pianura, i tappeti di muschio. Dovevo solo fare un ultimo salto. M’aggrappai a un ceppo di carpini e mi lasciai scivolare verso il fondo. Il ramo era troppo corto. Ero aggrappato alla punta del fuscello, disteso lungo l’argine, ma mancava ancora un metro all’acqua. Non c’erano altri appigli. Mollai la presa e mi lasciai andare. Arrivai sul fondo in velocità, stavo per infilarmi di punta nel ruscello gelato. L’acqua gelida scorreva veloce sopra i sassi. Se toccavo quell’acqua morivo. Artigliai con la mano libera la sponda erbosa e cercai di frenare la caduta. Sentii la terra e le scaglie di pietra infilarsi sotto le unghie. Arrivai in fondo ancora troppo forte. M’impuntai con i piedi sull’argine del torrente e mi catapultai in avanti. Ruotai tutto intero e rigido sopra l’acqua e atterrai di faccia sull’altra sponda. Con la coda dell’occhio vidi il mio canestro in vimini allontanarsi portato dalla corrente. Galleggiava sulle onde. Stavo con i piedi di là e la faccia da quest’altra parte. La pancia a cinque centimetri dal pelo dell’acqua. Un ponte umano, una struttura orizzontale di ossa e carne.Rimasi così qualche secondo, chiusi gli occhi e provai a resistere, poi mi rassegnai. Feci leva con le braccia, mi sollevai un po’ e infilai lentamente dentro le gambe cercando di non cascarci tutto intero, ma appena toccato il pelo dell’acqua la corrente mi trascinò via e mi travolse fino al collo. Una scarica di aghi nelle ossa. L’acqua era come pensavo, vicina a zero gradi. M’aggrappai all’erba sulla sponda e cominciai a tirare. Urlavo e tiravo, ma la corrente era forte. L’erba cedeva. Diedi un colpo in avanti e riuscii a raggiungere con la destra un arbusto verde. Mi ci attaccai anche con l’altra mano, mi ci attaccai con tutto me stesso e continuai a tirare. Guadagnai trenta centimetri contro la corrente e mi avvinghiai a un ramo più avanti. Forse non morivo. Urlai più forte. Mi tirai fuori fino alla cinta e poi riuscii a mettere un ginocchio sulla sponda. M’arrampicai anche con l’altra gamba e alla fine venni fuori. Ero salvo. Maledetti funghi.Non mi fermai a pensare. Risalii la sponda e continuai a camminare. Non sentivo nemmeno freddo, non sentii freddo per il quarto d’ora successivo, era l’adrenalina.Poi arrivò il gelo. Continuai con le gambe di legno e i denti che battevano. Battevano così forte che ebbi paura di spezzarmeli, ma non potevo fermarmi. Continuai a camminare. Camminai e camminai coi neuroni congelati senza riuscire a pensare a niente. Non so per quanto andai avanti. A un certo punto provai anche a guardare l’orologio, ma il quadrante s’era allagato bloccandosi alle una e cinquanta esatte. Andato anche quello. Poi mi ricordai del cellulare. Il cellulare no, ti prego dio, il cellulare no. Infilai una mano in tasca e lo tirai fuori. Funzionava.Dio ti ringrazio. Segnava anche l’ora, le due e tre quarti. Almeno il telefono era salvo. La cosa mi diede forza. Mi rimisi in marcia ad andatura forzata.Raggiunsi la statale alle tre e mezza. Quando posai i piedi sull’asfalto mi venne da piangere. Di nuovo la civiltà.Sapevo dov’ero. La macchina era tre o quattro chilometri più a monte, ma ormai ero a casa. Camminai in salita di là della riga bianca e alla fine arrivai. Bella la mia macchina.Mi spogliai e rimasi in mutande. Il sole aveva scaldato il sedile di pelle nera. Mi ci accomodai sopra e chiusi gli occhi. Bello. Buttai gli abiti sul sedile dietro e misi in moto.Ero in mutande, da fuori si vedeva che ero nudo, ma non era mica reato. Forse si, ma non contava. Ingranai la marcia e partii.

Wednesday, June 13, 2007

Random (esperimenti di scrittura)


Psiche


La dottoressa stava seduta di fronte a Carlo, era una bella donna snella con un viso affilato ma piacevole e vestita con cura, nonostante questi particolari lui non era mai riuscito a vederla come possibile amante e neanche come donna.
Carlo riteneva che questo fosse dovuto alla bravura di lei nella sua professione, era psicologa, riusciva a coinvolgerlo a farlo parlare ma lei restava come sospesa su un piano diverso, distaccata: eppure a volte lui la sentiva vicina la sentiva emozionarsi ma sempre in maniera impalpabile.
Dopo lunghi anni di tentativi, più o meno convinti, solitari, aveva dovuto ammettere che se voleva dare un taglio al suo controverso rapporto con l’eroina l’unica soluzione era quella di rivolgersi ad uno specialista.
Carlo sapeva che per lui non sarebbe servito a nulla rinchiudersi in una comunità, per un brevissimo periodo c’era stato, ma solo perché ricattato dalla moglie: “o vai dentro, oppure ti lascio e non vedrai neppure i tuoi figli” questo aveva detto.
Quando aveva capito che la comunità aveva peggiorato il suo atteggiamento portandolo a fare cose che prima non aveva mai fatto decise che era meglio sopportare una separazione e combattere da solo piuttosto che ritrovarsi dopo un paio di anni allo stesso punto e per di più senza lavoro o referenze.
Lui capiva la necessità per alcuni di andare in una comunità, gente che viveva senza regole, sulla strada con problemi di salute o con la legge: in un ambiente protetto poteva pian piano ricostruirsi un codice, un sistema di vita normale anche se dall’altra parte correvano il rischio non appena usciti dalla zona protetta di ricadere a breve nella vita precedente:questo forse era il motivo che spingeva molti a rimanere nell’orbita della comunità senza riuscire a tagliare il cordone ombelicale.
Carlo invece aveva bisogno di uscire dal problema continuando a vivere normalmente: lui doveva poter fare a meno della polvere pur sapendo che era li disponibile a portata di mano.
Certo non era stato facile, erano stati tre anni lunghi e di lavoro intenso su se stesso: quattro sedute settimanali con la psicologa e per il primo anno l’assunzione di un farmaco che gli impediva di assumere oppiacei, le analisi costanti delle urine per vedere se sgarrava, passato il primo anno aveva smesso con il farmaco ma erano continuate le analisi, alla fine del secondo anno erano cessate anche quelle e lui aveva dovuto continuare il suo lavoro senza questi supporti che pur sapendo di costrizione in realtà lo avevano aiutato.
Ricordava ancora i primi incontri con la psicologa: lei entrava si salutavano e poi rimanevano muti per un’ora, pian piano Carlo si era sciolto ed aveva cominciato a raccontarle pezzi della sua vita oppure quello che gli era successo quel giorno.
Lei lo ascoltava ed a volte faceva qualche domanda, commentava poco e faceva si che Carlo dicesse le cose e le elaborasse da solo, solo una volta disse una frase che lo colpì molto e lo lasciò incerto sul significato: lui aveva raccontato di essersi esposto, sul luogo di lavoro, al posto di un collega più giovane e con un contratto di formazione in merito a certe decisioni prese dal capo reparto.
La dottoressa Paola lo lasciò finire e poi disse:”certo non deve essere difficile volerle bene”, poche parole che però lo fecero sentire forte e orgoglioso e non sapeva nemmeno perché.
Ora dopo tre anni si trovava davanti a Paola per il loro ultimo incontro, non gli pareva nemmeno vero: stava per uscire da quel rapporto ambiguo ma sicuro da quella intimità a senso unico che lo aveva accompagnato in quel periodo a volte difficile.
Non sapeva bene cosa dire se non esprimerle la sua riconoscenza incondizionata, fu lei a risolvere la situazione: si alzò andò da lui e lo baciò, un bacio da amica sulle guance ma che esprimevano un affetto e una vicinanza che lui non aveva trovato in occasioni più intime con altre donne.

Thursday, April 19, 2007

PERSONAGGI: John Brunner


John Brunner
Nato il 24 settembre '34 nell'Oxfordshine, in Inghilterra, da una famiglia di industriali del settore chimico. All'età di tredici anni comincia a frequentare il Chelternham College, ad Oxford, e, più tardi, conseguirà una laurea in lingue moderne. È in questo periodo che nasce in lui l'interesse per la Sf;infatti comincia a leggere ed apprezzare le opere di Wells e di Verne e di altri scrittori del genere. Entrerà poi in contatto con la fantascienza vera e propria, e da lì la sua passione, che lo accompagnerà per tutta la vita. Già nel '53, diciottenne, riesce a pubblicare il suo primo racconto, o meglio il racconto con il quale egli vuole fare iniziare la sua carriera di scrittore, anche se in effetti nel '51 aveva già pubblicato un romanzo ("Galactic Storm"), di cui però non si ha traccia, e di cui lo stesso Brunner non vuole parlare troppo. Questo suo primo racconto fu "Thou Good and Faithful" (Grazie di tutto), pubblicato in "Astounding", in marzo. Lasciata poi la scuola si arruola nella RAF, dove rimane per due anni;si impiega poi nell'Industrial Diamond Information Bureau, trasferendosi a Londra nel contempo;qui conosce lo scrittore John Christopher, che lavorava in quella stessa ditta. Poi fa il curatore per una casa editrice. È questo un periodo in cui Brunner decide, per scelta, di continuare a cambiare lavoro, parallelamente alla sua attività di scrittore. Al momento della fine del servizio militare ricevette una lettera da uno zio ricco che gli offriva una cattedra ad Oxford "purchè seguisse un piano di studi preordinato", alla quale rispose con uno sberleffo. Dal '58 divenne scrittore a tempo pieno. Sempre nel '58 si sposa, in estate, con certa Marjorie, con la quale, nel '59 intraprende una serie di viaggi in Europa interessandosi dei problemi più drammatici del nostro tempo: si interessano di una mostra sugli effetti delle armi nucleari, dei problemi del disarmo, dell'eutanasia, dei diritti civili, della protezione dell'ambiente. Questi temi dovevano poi riaffiorare prepotentemente nelle sue opere più impegnare;infatti le sue opere si debbono dividere in due categorie ben distinte, quelle impegnate e quelle avventurose, queste ultime dovute a problemi di carattere economico, ma nelle quali traspare sempre la sua vena migliore. Ha fatto parte dell'Unione Mondiale degli Scrittori che si battono per il disarmo. Una considerazione generale da farsi sull'opera di Brunner è questa: le trame delle sue opere migliori vengono tratte da problemi estremamente reali ed attuali, e soprattutto vogliono tracciare le possibili conseguenze della strada che la civiltà moderna ha intrapreso. È morto il 25 agosto '95 a Glasgow.
Bibliografia essenziale romanzi
"Il telepatico" (The Whole Man, ’64), "Cosmo oro" n. 32, "Tascabili Sf" n. 15, ed. Nord, ’78, ’92
"La scacchiera" (The Squares of the City, ’65), "Urania" n. 512, ed. Mondadori, ’69
"Tutti a Zanzibar" (Stand on Zanzibar, ’68), "Sf narrativa d’anticipazione" n. 9, "Cosmo oro" n. 96, ed. Nord, ’77, ’88
"L’orbita spezzata" (The Jagged Orbit, ’69), "Cosmo argento" n. 259, ed. Nord, ’95
"Il gregge alza la testa" (The Sheep Look Up, ’72), "Sf narrativa d’anticipazione" n. 4, ed. Nord, ’75, "Cosmo oro" n. 136, ed. Nord, ’94
"Codice 4GH" (The Shockwave Rider, ’75), "Sf narrativa d’anticipazione" n. 16, "Cosmo argento" n. 266, "Tascabili fantascienza" n.42 , ed. Nord, ’79, ’96 ,’98 ,le ultime edizioni col titolo "Rete globale"
"Il gioco dell’inferno" (Players at the Game of People, ’80), "Sf narrativa d’anticipazione" n. 26, ed. Nord, ’81
"L’isola del caos" (The Tide of Time, ’84), "Cosmo argento" n. 201, ed. Nord, ’89
antologie
"Le finestre del cielo" (No Future in It, ’62), "S. f. b. c. " n. 43, ed. La tribuna, ’62

Thursday, March 22, 2007

Random (esperimenti di scrittura)



Un’offerta di lavoro


Carlo era tornato lentamente al campo, non aveva trovato le risposte che cercava sul fondo del lago delle scritture però aveva goduto sia dei propri ricordi che della confidenza di Giulia; gli aveva fatto molto piacere ascoltare la ragazza e soprattutto la naturalezza con cui lei gli aveva raccontato fasi anche dolorose della sua giovane vita.
“Finalmente sei tornato, cominciavo a stare in pensiero” disse Giulia incrociando Carlo che si stava dirigendo verso le docce, “cosa vuoi” rispose lui “ mi sono perso nei ricordi, adesso però mi do una lavata, puzzo come una capra svizzera e se vuoi dopo ceniamo assieme”, Giulia lo guardò divertita e rispose:” va bene, ho visto il menù, questa sera wali na nyama, corro a sistemarmi e ci vediamo a tavola”.
Lo spazio nel piccolo rifugio del MacKinder’s camp non era molto e neppure l’intimità, d’altra parte non era un rifugio per turisti simile a quelli in Svizzera o nel Trentino: per il monte Kenya era già un lusso insperato; la ragazza indossò un bel maglione di lana perché nonostante fossero praticamente all’equatore, la sera, vista l’altitudine faceva freddo e c’era una certa umidità, tutto questo era però compensato dallo splendido spettacolo della volta celeste incastonata di stelle che, data la mancanza di altre luci, brillavano e risaltavano come tanti diamanti.
Giulia era molto incuriosita da quel signore anziano così gentile e tranquillo, le piacevano i modi e l’aspetto forte e vigoroso, ma di più ancora il suo modo di fissare lo sguardo quando parlava: come se vedesse delle cose lontane, a lui solo note.
Aveva alcune domande da rivolgergli, sopratutto una urgentissima: cos’era lo wali na nyama? Era in Kenya da poco e fino ad all’ora aveva parlato in inglese, certo aveva sentito continuamente lo swahili ma non aveva avuto modo di studiarlo un po’ o di leggere qualche cosa in proposito, aveva capito che Carlo lo parlava bene e voleva chiedere a lui qualche informazione sul posto migliore per studiarlo, certo non pretendeva di impararlo subito o parlarlo correntemente, ma visto che voleva fermarsi un po’ per preparare la tesi e andare anche in Tanzania e Zaire pensava valesse la pena averne una infarinatura.
Si accomodò sulla panca che fiancheggiava il lungo tavolo e dopo poco vide arrivare Carlo che teneva due birre in mano, “spero che una di quelle birre sia per me – disse Giulia – così possiamo brindare al nostro incontro”, Carlo si accomodò e porgendole la birra disse: “certamente, non mi piace bere da solo e poi tra poco ceniamo”, “a proposito – disse lei – che cos’è il wali na nyama?”
“Molto semplicemente riso e carne di capra, per noi una banalità, per loro un piatto della festa”, così rispose Carlo, dopo di che alzò la sua birra per brindare con Giulia.
Durante la cena parlarono a lungo dello swahili e di dove studiarlo, Giulia spiegò a Carlo che le sarebbe piaciuto apprenderlo per potersi muovere più a suo agio in est africa; d’altra parte però gli manifestò i suoi dubbi circa le reali possibilità di farlo in quanto la sua situazione economica non era molto florida.
Carlo la ascoltò con attenzione e pian piano gli si delineo in testa un’idea che gli piaceva molto, ma che non sapeva come presentare alla giovane donna che sedeva di fronte a lui in quanto aveva paura che lei travisasse le sue parole o che rifiutasse per orgoglio o timidezza: d’altra parte la conosceva da appena una giornata.
Stava ancora cercando le parole adatte per iniziare il suo discorso quando lei gli disse: “che ti succede? Mi pare di sentire gli ingranaggi del tuo cervello che girano”, lui la guardò imbarazzato e rispose” vedi stavo rimuginando una cosa e cercavo le parole per spiegartela senza spaventarti oppure offenderti”, “offendermi? spaventarmi? stai per farmi delle avances?” disse lei sorridendo maliziosamente; Carlo strabuzzò gli occhi e ridendo a sua volta rispose:”no no, volevo dirti che potresti usare la mia casa di Nairobi come base per i tuoi studi e per quanto riguarda gli spostamenti potrei accompagnarti io sia in Tanzania che in Zaire, certo ci vorrà un po’ di tempo ma se tu puoi restare qualche mese si può fare”.
La ragazza rimase per un attimo con lo sguardo di chi ha visto una cosa a lungo cercata ma che ancora non sa se è reale oppure un miraggio, poi si riprese e guardando Carlo disse: “il tempo non è un problema, ho un biglietto d’aereo aperto per un anno, ma non potrei pagarmi ne l’affitto ne le spese per mantenermi, credo di avere appena i soldi per andare in autobus in Tanzania e restarci qualche giorno”, così dicendo il suo volto assunse un’aria delusa e un po’ triste.
Carlo la guardò con attenzione e poi disse:” affitto? e chi ha parlato di affitto, la casa è abitata da una governante e da un mio amico che funge anche da guardiano, c’è un sacco di spazio e diverse camere libere, in quanto ai soldi stavo per offrirti un baratto: tu mi sistemi l’archivio in casa quando sei a Nairobi ed io sovvenziono i tuoi viaggi e la scuola di swahili, che ne dici?”.
Giulia lo fissò a lungo e poi disse:” certo è un’offerta molto allettante, ma perché faresti una cosa simile? Per quanto tu possa avere un archivio enorme non credo che questo lavoro potrebbe ripagarti, però tu non mi sembri neanche il tipo di uomo che vuole approfittarsi della situazione….”
“Hai ragione, io non voglio approfittarmi di te – disse Carlo - semplicemente mi è piaciuto il tuo entusiasmo: quando ero giovane ho avuto i tuoi stessi problemi ma nessuno mi ha aiutato, io adesso posso farlo, i mezzi non mi mancano e sarei felice di darti una mano e poi……non sottovalutare il mio archivio! Pensaci, ma ti prego non farti fregare dall’orgoglio e accetta.”
Giulia sorrise, poi gli si avvicinò e disse:” va bene ci penserò questa notte, sappi che mi fido di te anche se ci conosciamo da così poco tempo, domattina ti darò la mia risposta”, detto questo gli diede un bacio sulla guancia lo salutò e andò nella sua branda, Carlo rimase al tavolo ancora un po’, si bevve un’altra birra: certo questo cambiava i suoi programmi, non si sarebbe spinto fino al lago Turkana, se lei accettava l’avrebbe accompagnata a Nairobi e poi lui sarebbe ripartito per la Tanzania alla volta di Morogoro dove conosceva una ottima scuola di swahili.
Chissà cosa avrebbero detto Francis e soprattutto Jean-Pierre, sicuramente avrebbero tirato fuori le solite battute sui vecchi satiri spudorati, a questo però era abituato e sapeva come difendersi e poi a parte le battute sapeva che avrebbero capito.
Aveva dormito bene e dopo una doccia si stava bevendo un caffè quando la vide arrivare:” Buongiorno, ti ho ordinato il caffè, hai riposato bene?”, “si - disse lei - ho faticato un po’ a prendere sonno a causa di quanto mi avevi proposto….”, “ebbene?” disse lui fissandola negli occhi, “ebbene, mi dispiace per te ma ……accetto!”
Giulia guardò sorridendo Carlo e vide il suo viso rilassarsi e gli occhi splendere: “hai fatto la scelta giusta, non te ne pentirai, quando tra qualche giorno avrai finito le tue osservazioni qua ti accompagnerò a Nairobi dove potrai sistemarti e cominciare con l’archivio mentre io organizzerò il tuo periodo di studio in Tanzania.”
“E tu cosa farai qui – chiese Giulia – mentre io raccolgo i miei campioni?”, Carlo fece un’alzata di spalle e disse:” mah, ti accompagnerò e come al solito mi perderò nei miei ricordi.”

Friday, February 23, 2007

PERSONAGGI: Frate mitra


Silvano Girotto (Caselle, 4 aprile 1939), più noto con il soprannome di Frate Mitra, è un personaggio controverso legato alle vicende delle Brigate Rosse.
Indice
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· 1 Biografia
o 1.1 I primi anni
o 1.2 Sud America
o 1.3 Infiltrato nelle BR
o 1.4 Vita normale
· 2 Bibiliografia
· 3 Voci correlate
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[modifica] Biografia
[modifica] I primi anni
Figlio di un maresciallo dei Carabinieri, si arruolò nella Legione straniera finendo in Algeria al tempo della rivolta, da cui in seguito disertò.
Al rientro in Italia venne coinvolto in un furto in una tabaccheria finendo nelle carceri torinesi. Successivamente entrò nell'Ordine francescano assumendo il nome di padre Leone (uno dei più fedeli compagni di San Francesco), indossando il saio il 10 ottobre 1964.
Nel 1969 contribuì a sedare la rivolta nelle Carceri Nuove di Torino fecendo il mediatore, quindi chiese ai suoi superiori di essere inviato come missionario nel Terzo Mondo.
[modifica] Sud America
Giunto in Bolivia, uno dei paesi più poveri dell'America latina a quel tempo, come missionario, si trovò coinvolto nella guerriglia e dovette darsi alla macchia, riparando quindi in Cile nel 1971, ottenendo asilo come profugo politico e ove poi assistette agli avvenimenti legati al golpe di Pinochet del 1973.
Durante la sua latitanza armata in Sudamerica venne dimissionato, ossia espulso dall'Ordine Francescano nel 1973, tramite un decreto emesso dalla curia provinciale dell'ordine dei frati minori di Torino, in cui era espressamente citata la sua partecipazione alla lotta armata.
Per questo motivo e per la sua militanza nella guerriglia sudamericana all'inizio degli anni settanta venne soprannominato "frate mitra". Questo era il soprannome con cui era conosciuto nell'ambito delle Brigate Rosse tra le cui fila si sarebbe infiltrato in incognito, per conto dello stato.
[modifica] Infiltrato nelle BR
Nel luglio del 1974 Girotto entrò nelle BR; grazie alle sue informazioni si arrivò all'arresto, l'8 settembre dello stesso anno, di due dei fondatori dell'organizzazione terroristica, Alberto Franceschini e Renato Curcio, nonché di alcuni esponenti del suo gruppo dirigente.
In un'intervista del 1975 Silvano Girotto, "Frate Mitra", affermò: "io non sono concettualmente contrario alla lotta armata (...) ma lo sono quando essa non è necessaria. La mia avversione alla lotta armata è qui, in Italia... non c'è stato alcun cambiamento di linea politica da parte mia, ancora oggi se tornassi in America latina riprenderei il mitra perché so che purtroppo laggiù non esiste alternativa ma è desolante vedere che anche nel mio paese si vuol arrivare a quel tipo di situazione quando invece è ancora evitabile."
[modifica] Vita normale
Dopo il processo alle Brigate Rosse, andò a lavorare per qualche anno come capo tecnico impiantista negli Emirati Arabi e poi nello Yemen, per quindi ritornare in Italia nel 1981 e stabilirsi a vivere nel Piemonte.
[modifica] Bibiliografia
Silvano Girotto. Mi Chiamavano frate mitra, Ed. Paoline 2002,
Silvano Girotto
Il frate spia
Silvano Girotto, l’uomo che fece arrestare definitivamente Renato Curcio

La fine della primavera è decisamente sfavorevole alle bierre, in questo periodo, l’agente provocatore Silvano Girotto inizia la sua collaborazione con i CC: viene scoperta una base abbandonata a Pianello Val Tidone: tracce trovate nel rustico, condurranno al grande archivio di Robbiano di Mediglia (importante base delle bierre). Dunque, il mese di Maggio non è ancora trascorso che, avvicinato dal capitano dei CC Gustavo Pignoro, del nucleo speciale di p.g., l’ex frate francescano inizia la sua “collaborazione e inimicizia militante” nei confronti delle bierre. Che cosa lo spinge a vendersi?Motivazioni politiche, assicura. Nella sua autobiografia intitolata “Padre Leone”, spiega:”la polizia brancola nel buio, nonostante la formazione di organismi contro il terrorismo che sanno organizzare ottime conferenze stampa, ma quando a pescare i brigatisti non dimostrano la stessa perizia. Non è cattiva volontà, ce la mettono tutta.
Il fatto è che le bierre sono strutturate in modo diverso dalle solite bande criminali. Applicano anche i modelli e le esperienze e della guerriglia sudamericana(guerra per bande di Che Guevara). Alla polizia manca l’esperienza e le leggi, grazie a Dio,tutelano abbastanza i diritti individuali. Cosa di cui le bierre approfittano. Nel chiuso della mia stanza rifletto su queste cose. Sono irritato, indignato dalla pazzia incosciente di questi provocatori. La crisi economica si aggrava, l’inflazione avanza, si profila all’orizzonte una serie di lotte che i lavoratori dovranno sostenere per non perdere ciò che hanno conquistato in tanti anni. Leggi e organismi repressivi, se maneggiati opportunamente, in strumenti di persecuzione e intimidazione della classe operaia e delle sue organizzazioni di lotta”

Con questo stato d’animo, assicura, accetta di collaborare con i carabinieri. Al capitano Pignoro fa presente: “ non posso garantire nulla perché delle bierre non so nulla o quasi. Intendo però instaurare un rapporto di collaborazione, non intendo fare il confidente”. Non sarà accontentato : in occasione dell’arresto di Curcio e Franceschini, i carabinieri per coprire la”fonte” confidenziale stendono addirittura un rapporto falso.
Girotto vuole”sfruttare la curiosità e l’interesse che le bierre possono avere nei miei confronti, vista la “leggenda” che intorno a me si è creata”. In effetti i guerriglieri si mostreranno sensibili al fascino del revolucionario, crederanno alle garanzie che qualche personaggio ritenuto attendibile e fidato darà per lui.
Girotto arriverà a Curcio e Franceschini e li farà arrestare. L’ex frate batte a tappeto tutti gli ambienti tenta di coinvolgere tutti gli ambienti, tenta di coinvolgere molta gente. Al giudice istruttore, sotto giuramento, dirà: “ avevo cercato di documentarmi sulle bierre leggendo quanto giornali venivano pubblicando sull’argomento. Ricordo in particolare di avere letto su “ Panorama” un pezzo che diceva che molti brigatisti si erano formati nella zona di Borgomanero.
Io ero stato religioso in Omega e , nella zona, ero pertanto molto conosciuto. Tornato dal Cile molti mi avevano cercato e , tra costoro, Alberto Caldi, uno che quando ero a Omega mi veniva sempre dietro”.
Girotto incontra Caldi, gli confida di voler riprendere l’attività politica e di essere alla ricerca di un canale che gli permetta un contatto con i gruppi extraparlamentari di sinistra più radicalizzati.
Caldi gli procura un incontro con l’avvocato Riccardo Borgna, di Omega, fama di sincero democratico e di solida famiglia dc alle spalle. C’è una cena, nella “ bellissima villa sul lago d’Orta” del professionista. Dalla deposizione:” si parlò del più e del meno.Io mi atteggiavo a estremista, per fornire un’esca, ma Borgna non pareva sensibile: quando il discorso cadeva sulle bierre, cercava , anzi,di evitare l’argomento”.
Girotto già teme un fiasco, quando,al momento dei saluti, l’avvocato gli si avvicina e, con aria da cospiratore, gli sussurra:” bisogna che ci rivediamo, per cose concrete. Si tratta delle Brigate rosse”. Nuovo colloquio qualche tempo dopo, non più a casa ma nello studio. “ Voglio assumere il mio posto di combattimento “ dichiara l’ex frate, Borgna è ben disposto, il contatto con le bierre ci sarà.
Ancora un incontro sulle rive del lago d’Orta. Dalla dichiarazione” a futura memoria” di Girotto:” Borgna mi disse che Levati, col quale intendeva mettermi in contatto, era in Val D’Aosta, e che se non fosse riuscito a parlare con lui avrebbe altri canali. In ogni caso disse che gli occorrevano ancora otto giorni”
L’avvocato negherà di aver parlato di “altri canali” ma non smentisce la sostanza delle richieste del frate spia.
Da: Imputazione: banda armata
Silvano Girotto oggi
Nelle foto dell’epoca sembra Jovanotti. Era un frate. Un frate un po’ turbolento. Da ragazzino era stato in riformatorio. Da adolescente nella Legione Straniera. Da giovanotto in galera. Poi in convento. Poi nelle favelas sudamericane. Poi nella guerriglia armata. Il suo nome era Silvano Girotto ma lo chiamavano Frate Mitra. Divenne famoso il giorno in cui si infiltrò nelle Brigate Rosse e fece catturare Renato Curcio e Alberto Franceschini, due dei capi storici. Da allora divenne per la sinistra italiana un infame. Si è rifatto una vita, si è sposato, ha avuto due figlie, è diventato capo della manutenzione di una grande azienda alberghiera. Ancora oggi gli dà fastidio che qualcuno continui a considerarlo una spia mentre lui si considera uno che si è sacrificato per il bene del suo Paese. E così ha deciso di raccontare la vera storia della sua vita in un libro, “Mi chiamavano Frate Mitra”. “Il libro è nato come l’esigenza di un padre che deve spiegare alle figlie perché ogni tanto il suo nome compare sui giornali. Avevo cominciato scrivendo una lettera. Poi la lettera è diventata un fascicolone. I Paolini lo seppero e mi chiesero di pubblicarlo”.
Che cosa provavano le sue figlie nei confronti della sua vita passata?
“Disagio e curiosità”.
La domanda che le facevano più spesso?
“Mi dicevano: è proprio vero che sei stato un prete? Ma non sei stato un prete come gli altri, no?”
Lei inizia il racconto con la sua adolescenza. Un’adolescenza turbolenta.
“L’adolescenza è una fase delicatissima del processo di maturazione di una persona. Si può facilmente imboccare una strada che può portare alla catastrofe. Ci si sente sicuri di sé, non si attribuisce alcun valore all’esperienza dei più grandi. E’ un momento pericoloso. L’altro giorno, scherzando con le mie figlie, ho detto: “Sono contento che siate sopravvissute alla vostra adolescenza”.
La sua era una famiglia borghese.
“Borghese ma non ricca. Papà faceva il carabiniere”.
L’educazione l’ha avuta buona quindi…
“Certamente. Avevo il permesso di uscire soltanto per andare all’oratorio dei salesiani”.
Ma poi finì con degli sbandati. A fare delle “bravate”.
“Ancora oggi non riesco a vedere quei gesti come cose gravi”.
Che la portarono in riformatorio.
“Avevamo scassinato una cassetta di bibite”.
E in galera?
“Un gruppo di ragazzetti della mia età, una banducola, alle tre di mattina decise di procurarsi delle sigarette. “C’è una tabaccheria che basta spingere una finestra per entrarci dentro, dice uno. Invece dentro c’era anche il tabaccaio che sorprese quello entrato. Colluttazione. Fuga generale. Noi rimasti fuori non avevamo nemmeno visto la scena della colluttazione. Ma per il codice penale quella era una rapina. E venne addebitato a tutti, non solo a quello entrato. Mi dettero sette anni. Ne ho fatti cinque”.
Tra il riformatorio e la galera ci fu la Legione Straniera.
“Avevo sedici anni, sentivo vergogna nei confronti della mia famiglia, decisi di rifarmi una vita. Fu un’esperienza durata pochissimo, tre mesi. Scappai dopo avere assistito a una tortura. Un episodio che forse forgiò anche il mio atteggiamento di ribellione assoluta contro l’ipocrisia della società”.
E poi la galera. Dove avvenne la conversione. Dal 63 al 69 visse in convento. Poi?
“Decisi di andare in America Latina, una scelta radicale per entrare in contatto con i poveri del mondo”.
In Bolivia. E scoprì la religione nei Paesi del sottosviluppo.
“Era molto in auge, allora, la cosiddetta Teologia della Liberazione, l’affermazione che non ci si poteva limitare soltanto a predicare e a promettere una vita migliore nell’aldilà ma ci doveva occupare anche dell’aldiqua. Il grande cambio dentro di me avvenne quando mi trovai nel pieno di un massacro, quando da un nido di mitragliatrici cominciarono a sparare sopra una folla di bambini e di mamme. Fu un momento di svolta: imbracciai le armi”.
Che cosa successe?
“Lanciai una granata e feci saltare il nido di mitragliatrici”.
Non ha paura di avere ucciso qualcuno?
“Purtroppo sono sicuro di averlo fatto. Una contraddizione da cui non sono ancora uscito. Non sono mai riuscito nemmeno a pentirmene”.
Nel libro lei giustifica anche la guerra in Afghanistan.
“Io non sono un buonista. Considero la violenza la situazione più terribile in cui un uomo possa trovarsi. Ma ritengo che a volte sia inevitabile. Io ho usato le armi contro l’ingiustizia, contro la dittatura, il massacro, gli squadroni della morte, sapendo che era l’unica strada”.
Quanto è durato il suo periodo “violento”?
“Dal 21 agosto 1971, giorno di quel massacro, all’11 settembre 1973, colpo di stato di Pinochet.
Ha mai avuto il sospetto di essere pervaso di narcisismo, di voglia di protagonismo?
“No, il fatto che io abbia dovuto intervenire perché una mitragliatrice stava massacrando donne e bambini non c’entra nulla col protagonismo. La considerazione di quello che ne avrebbero pensato gli altri non mi ha mai toccato”.
Anche quando, in seguito, si infiltrò nelle Brigate Rosse?
“Era proprio l’ultima cosa da fare se volevo guadagnarmi una buona fama. Il clima allora tirava dalla parte opposta. Ho affrontato 25 anni di linciaggio morale”.
Perché lo fece?
“Ero appena uscito da un incubo e vedevo che in Italia c’era qualcuno che voleva creare le condizioni perché quest’incubo si realizzasse anche da noi”.
E si mise in testa di fermarli. Si infiltrò. Fece catturare Alberto Franceschini e Renato Curcio, due dei capi storici. Erano quelli meno fanatici, quelli meno “militaristi”. Fino ad allora le Brigate Rosse non avevano ucciso. Da allora cominciò il bagno di sangue. I sospetti sono forti.
“La vicenda può essere letta anche così. Per un po’ l’ho pensato anch’io. Io avevo detto ai carabinieri di lasciarmi andare avanti. Che avrei potuto ottenere risultati ottimi, farli catturare tutti. Invece loro vollero affrettare l’operazione e si accontentarono di prendere loro due. Non so se per pressappochismo, per frenesia del risultato immediato o per qualcosa di più e di diverso. A questo quesito non ho risposta. Alla luce di quello che è successo dopo tutto può essere”.
Moretti era stato avvertito da una misteriosa telefonata che stava scattando la trappola per Curcio e Franceschini. Ma non riuscì – disse - ad avvertirli. E divenne il capo delle Br.
“Trovo francamente la spiegazione di Moretti piuttosto inconsistente”.
Non ha paura di essere stato strumento di un gioco che andava oltre lei?
“Quando penso che posso essere stato strumentalizzato, la cosa non mi fa piacere. Sono convinto che se non mi avessero fermato sarebbe cambiata la storia d’Italia. Non ci sarebbero stati gli anni di piombo. Ormai avevo la possibilità di eliminare le Brigate Rosse alla radice”.
Prese precauzioni dopo la cattura di Curcio e Franceschini?
“Tolsi il mio nome dall’elenco del telefono”.
Ebbe il coraggio di andare a testimoniare al processo di Torino. Tra le continue minacce dei brigatisti che avevano fatto fuggire giudici popolari e avvocati d’ufficio.
“Tutta quella stampa comunista che aveva promosso il mio linciaggio tacque questo fatto perché mal si conciliava con la figura dello spione traditore. Io traditore non sono mai stato.
Tanti anni dopo ha incontrato Franceschini.
“Ci siamo parlati per tre ore, ci siamo abbracciati. E’ un uomo estremamente equilibrato. Che si è riconciliato con il suo passato”.
A me ha detto che la considera quasi un angelo custode. Se non ci fosse stato lei sarebbe diventato sicuramente un assassino.
“A me ha detto: “Ti ho visto dieci minuti e mi sono fatto 18 anni di galera”.”
E Curcio?
Ci scriviamo. Ma non parliamo di quegli anni. Non vuole assolutamente avere nessun altra occasione di ricordarli. Un’operazione di rimozione totale.

Monday, April 25, 2005

uno strano cattolico del dissenso: silvano girotto intervistato oggi su corriere. "adua - ricordate frate mitra, silvano girotto, parroco a chapare, una sperduta regione dell’amazzonia, che negli anni ’70, in bolivia, per combattere la sanguinosa dittatura di hugo banzer, fondò il mir (movimento de izquierda revolutionaria), imbracciò il mitra e si diede alla guerriglia? il prete, allora si chiamava padre leone, che durante il colpo di stato di augusto pinochet in cile (l’11 settembre 1973), ricercato dalla polizia si rifugiò, assieme a decine di persone, nell’ambasciata italiana? colui che, tornato in italia, fu infiltrato dal generale dalla chiesa nelle brigate rosse e l’8 settembre 1974 fece catturare a pinerolo, renato curcio e alberto franceschini? ebbene, frate mitra si è trasferito ad adua (in etiopia, a pochi chilometri dal confine con l’eritrea) e aiuta la sorella laura, superiora delle suore salesiane, nella difficile gestione della più bella missione di tutta l’africa. silvano, 66 anni portati benissimo e occhi di un azzurro intenso, si è sposato parecchio tempo fa con carmen (boliviana e ex guerrigliera anche lei, il suo nome di battaglia era compagna laura) e ha due figlie che vivono in italia. la missione salesiana sorge a poche centinaia di metri dalla piana dove il primo marzo 1896 le truppe italiane subirono una storica sconfitta da parte dell’esercito etiopico del ras menelik ii. l’esperienza guerrigliera di silvano girotto, spesso considerata una «montatura» pilotata da più servizi segreti e usata dell’allora colonnello dalla chiesa per facilitarne l’infiltrazione nelle br, è stata seguìta dagli studi in ingegneria: ora cura la parte impiantistica. «non rimpiango niente del mio passato - racconta -. ho agito con coerenza e correttezza, sempre al fianco dei più deboli e bisognosi. in bolivia ho deciso di appoggiare la guerriglia quando ho visto l’esercito ammazzare oltre 500 persone e una settimana dopo le alte gerarchie della chiesa celebrare il "te deum", nella cattedrale di la paz, con invitato d’onore banzer. stessa cosa in cile, dove noi del mir avevamo le basi e avevamo trovato rifugio. l’assassino di allende, lo stadio dove venivano ammassati i "comunisti", e il "te deum" con i vescovi e pinochet. troppo». se non fosse successo tutto questo sarebbe ancora sacerdote? «certamente io non ho mai pensato di lasciare il mio ministero. mi hanno chiesto di abiurare il mio passato, di pentirmi di aver partecipato alla guerriglia. ci ho pensato e mi sono chiesto se valeva la pena abbandonare la mia gente, tradirla. ho detto no». poi si è sposato. .. «si, non lo avrei fatto se fossi rimasto prete, come avrei voluto. ma una volta fuori ho pensato di crearmi una famiglia e carmen è una donna straordinaria. mi ha aiutato moltissimo». la «compagna laura» di una volta è oggi un’infermiera professionale. nella missione si fa in quattro per chiunque e la piccola clinica della struttura, nata per aiutare gli studenti, è diventata un punto di riferimento per la popolazione di adua. «ci siamo conosciuti durante la guerriglia, poi ci siamo persi di vista quando a santiago ci siamo rifugiati in ambasciate diverse. io sono tornato in italia con il primo aereo che ha rimpatriato i nostri connazionali. dopo un po’ lei mi ha chiesto aiuto e l’ho fatta venire da noi». silvano girotto, che ha scritto un libro sulla sua storia («mi chiamavano padre mitra») era ad adua quando è scoppiato il conflitto tra etiopia ed eritrea: «abbiamo aiutato i profughi che arrivavano in missione senza nulla. almeno centocinquantamila persone sono passate da qui chiedendo aiuto. chi paga per le guerre è la povera gente. ho sempre presente nella mia mente benjamin, un ragazzino che aveva 14 anni. conservo la sua foto in camera. era intelligentissimo e voleva fare l’elettricista. lo portavo con me a mettere a posto gli impianti della missione. quando gli ho regalato un cacciavite e una pinza era felicissimo. un giorno è sparito. si è arruolato per difendere la sua gente, mi ha detto. so che appena arrivato al fronte me l’hanno ammazzato». c’è molta differenza tra l’america latina e l’africa. «sono situazioni assai diverse, ma ho visto molti morti sia lì che qui e vorrei non vederli mai più. desidererei che la chiesa, cui sono ancora molto legato, facesse di più per i poveri, i diseredati, i paria del mondo. e invece mi accorgo che resta lontana dalla realtà». una realtà che è sempre più drammatica: fame, carestie, la piaga dell’aids. la teologia della liberazione che si sviluppò in sud america negli anni ’70 avrebbe potuto aiutare? «certamente, ma la chiesa di roma non ne volle sapere. da un lato l’apertura di paolo vi, che addirittura in casi particolarmente drammatici ammetteva la lotta armata, dall’altro l’allora cardinale ratzinger che ispirava i corposi documenti con cui si condannava la teologia della liberazione. le contraddizioni della chiesa risiedono nel fatto che non riesce a capire le condizioni della gente del terzo mondo. la condanna dei preservativi assomiglia tanto alla condanna inflitta a galileo. per ragionare nei villaggi africani non si possono usare gli stessi metri che si adoperano nelle ovattate sale del vaticano». e i rapporti con i brigatisti che fece catturare? «li ho incontrati e siamo diventati amici. abbiamo parlato e discusso. mi hanno dato ragione. mi sono associato alla guerriglia in america latina, in condizioni particolari, sotto la cappa di una feroce dittatura. in italia non c’erano le condizioni per la lotta armata. era assolutamente fuori luogo pensarlo. da noi non c’era una dittatura che ammazzava i contadini e la povera gente. ora anche loro sono d’accordo con me». nella trappola scattata a pinerolo doveva esserci anche mario moretti. «sì, all’appuntamento doveva esserci anche lui. ma all’ultimo momento fu avvisato da una telefonata che se ne stesse lontano. non so chi l’abbia avvisato, ma di quell’incontro sapeva soltanto un pugno di persone e nessun’altro. strano che sia sfuggito, vero?»".