Silvano Girotto (Caselle, 4 aprile 1939), più noto con il soprannome di Frate Mitra, è un personaggio controverso legato alle vicende delle Brigate Rosse.
Indice
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· 1 Biografia
o 1.1 I primi anni
o 1.2 Sud America
o 1.3 Infiltrato nelle BR
o 1.4 Vita normale
· 2 Bibiliografia
· 3 Voci correlate
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[modifica] Biografia
[modifica] I primi anni
Figlio di un maresciallo dei Carabinieri, si arruolò nella Legione straniera finendo in Algeria al tempo della rivolta, da cui in seguito disertò.
Al rientro in Italia venne coinvolto in un furto in una tabaccheria finendo nelle carceri torinesi. Successivamente entrò nell'Ordine francescano assumendo il nome di padre Leone (uno dei più fedeli compagni di San Francesco), indossando il saio il 10 ottobre 1964.
Nel 1969 contribuì a sedare la rivolta nelle Carceri Nuove di Torino fecendo il mediatore, quindi chiese ai suoi superiori di essere inviato come missionario nel Terzo Mondo.
[modifica] Sud America
Giunto in Bolivia, uno dei paesi più poveri dell'America latina a quel tempo, come missionario, si trovò coinvolto nella guerriglia e dovette darsi alla macchia, riparando quindi in Cile nel 1971, ottenendo asilo come profugo politico e ove poi assistette agli avvenimenti legati al golpe di Pinochet del 1973.
Durante la sua latitanza armata in Sudamerica venne dimissionato, ossia espulso dall'Ordine Francescano nel 1973, tramite un decreto emesso dalla curia provinciale dell'ordine dei frati minori di Torino, in cui era espressamente citata la sua partecipazione alla lotta armata.
Per questo motivo e per la sua militanza nella guerriglia sudamericana all'inizio degli anni settanta venne soprannominato "frate mitra". Questo era il soprannome con cui era conosciuto nell'ambito delle Brigate Rosse tra le cui fila si sarebbe infiltrato in incognito, per conto dello stato.
[modifica] Infiltrato nelle BR
Nel luglio del 1974 Girotto entrò nelle BR; grazie alle sue informazioni si arrivò all'arresto, l'8 settembre dello stesso anno, di due dei fondatori dell'organizzazione terroristica, Alberto Franceschini e Renato Curcio, nonché di alcuni esponenti del suo gruppo dirigente.
In un'intervista del 1975 Silvano Girotto, "Frate Mitra", affermò: "io non sono concettualmente contrario alla lotta armata (...) ma lo sono quando essa non è necessaria. La mia avversione alla lotta armata è qui, in Italia... non c'è stato alcun cambiamento di linea politica da parte mia, ancora oggi se tornassi in America latina riprenderei il mitra perché so che purtroppo laggiù non esiste alternativa ma è desolante vedere che anche nel mio paese si vuol arrivare a quel tipo di situazione quando invece è ancora evitabile."
[modifica] Vita normale
Dopo il processo alle Brigate Rosse, andò a lavorare per qualche anno come capo tecnico impiantista negli Emirati Arabi e poi nello Yemen, per quindi ritornare in Italia nel 1981 e stabilirsi a vivere nel Piemonte.
[modifica] Bibiliografia
Silvano Girotto. Mi Chiamavano frate mitra, Ed. Paoline 2002,
Silvano Girotto
Il frate spia
Silvano Girotto, l’uomo che fece arrestare definitivamente Renato Curcio
La fine della primavera è decisamente sfavorevole alle bierre, in questo periodo, l’agente provocatore Silvano Girotto inizia la sua collaborazione con i CC: viene scoperta una base abbandonata a Pianello Val Tidone: tracce trovate nel rustico, condurranno al grande archivio di Robbiano di Mediglia (importante base delle bierre). Dunque, il mese di Maggio non è ancora trascorso che, avvicinato dal capitano dei CC Gustavo Pignoro, del nucleo speciale di p.g., l’ex frate francescano inizia la sua “collaborazione e inimicizia militante” nei confronti delle bierre. Che cosa lo spinge a vendersi?Motivazioni politiche, assicura. Nella sua autobiografia intitolata “Padre Leone”, spiega:”la polizia brancola nel buio, nonostante la formazione di organismi contro il terrorismo che sanno organizzare ottime conferenze stampa, ma quando a pescare i brigatisti non dimostrano la stessa perizia. Non è cattiva volontà, ce la mettono tutta.
Il fatto è che le bierre sono strutturate in modo diverso dalle solite bande criminali. Applicano anche i modelli e le esperienze e della guerriglia sudamericana(guerra per bande di Che Guevara). Alla polizia manca l’esperienza e le leggi, grazie a Dio,tutelano abbastanza i diritti individuali. Cosa di cui le bierre approfittano. Nel chiuso della mia stanza rifletto su queste cose. Sono irritato, indignato dalla pazzia incosciente di questi provocatori. La crisi economica si aggrava, l’inflazione avanza, si profila all’orizzonte una serie di lotte che i lavoratori dovranno sostenere per non perdere ciò che hanno conquistato in tanti anni. Leggi e organismi repressivi, se maneggiati opportunamente, in strumenti di persecuzione e intimidazione della classe operaia e delle sue organizzazioni di lotta”
Con questo stato d’animo, assicura, accetta di collaborare con i carabinieri. Al capitano Pignoro fa presente: “ non posso garantire nulla perché delle bierre non so nulla o quasi. Intendo però instaurare un rapporto di collaborazione, non intendo fare il confidente”. Non sarà accontentato : in occasione dell’arresto di Curcio e Franceschini, i carabinieri per coprire la”fonte” confidenziale stendono addirittura un rapporto falso.
Girotto vuole”sfruttare la curiosità e l’interesse che le bierre possono avere nei miei confronti, vista la “leggenda” che intorno a me si è creata”. In effetti i guerriglieri si mostreranno sensibili al fascino del revolucionario, crederanno alle garanzie che qualche personaggio ritenuto attendibile e fidato darà per lui.
Girotto arriverà a Curcio e Franceschini e li farà arrestare. L’ex frate batte a tappeto tutti gli ambienti tenta di coinvolgere tutti gli ambienti, tenta di coinvolgere molta gente. Al giudice istruttore, sotto giuramento, dirà: “ avevo cercato di documentarmi sulle bierre leggendo quanto giornali venivano pubblicando sull’argomento. Ricordo in particolare di avere letto su “ Panorama” un pezzo che diceva che molti brigatisti si erano formati nella zona di Borgomanero.
Io ero stato religioso in Omega e , nella zona, ero pertanto molto conosciuto. Tornato dal Cile molti mi avevano cercato e , tra costoro, Alberto Caldi, uno che quando ero a Omega mi veniva sempre dietro”.
Girotto incontra Caldi, gli confida di voler riprendere l’attività politica e di essere alla ricerca di un canale che gli permetta un contatto con i gruppi extraparlamentari di sinistra più radicalizzati.
Caldi gli procura un incontro con l’avvocato Riccardo Borgna, di Omega, fama di sincero democratico e di solida famiglia dc alle spalle. C’è una cena, nella “ bellissima villa sul lago d’Orta” del professionista. Dalla deposizione:” si parlò del più e del meno.Io mi atteggiavo a estremista, per fornire un’esca, ma Borgna non pareva sensibile: quando il discorso cadeva sulle bierre, cercava , anzi,di evitare l’argomento”.
Girotto già teme un fiasco, quando,al momento dei saluti, l’avvocato gli si avvicina e, con aria da cospiratore, gli sussurra:” bisogna che ci rivediamo, per cose concrete. Si tratta delle Brigate rosse”. Nuovo colloquio qualche tempo dopo, non più a casa ma nello studio. “ Voglio assumere il mio posto di combattimento “ dichiara l’ex frate, Borgna è ben disposto, il contatto con le bierre ci sarà.
Ancora un incontro sulle rive del lago d’Orta. Dalla dichiarazione” a futura memoria” di Girotto:” Borgna mi disse che Levati, col quale intendeva mettermi in contatto, era in Val D’Aosta, e che se non fosse riuscito a parlare con lui avrebbe altri canali. In ogni caso disse che gli occorrevano ancora otto giorni”
L’avvocato negherà di aver parlato di “altri canali” ma non smentisce la sostanza delle richieste del frate spia.
Da: Imputazione: banda armata
Silvano Girotto oggi
Nelle foto dell’epoca sembra Jovanotti. Era un frate. Un frate un po’ turbolento. Da ragazzino era stato in riformatorio. Da adolescente nella Legione Straniera. Da giovanotto in galera. Poi in convento. Poi nelle favelas sudamericane. Poi nella guerriglia armata. Il suo nome era Silvano Girotto ma lo chiamavano Frate Mitra. Divenne famoso il giorno in cui si infiltrò nelle Brigate Rosse e fece catturare Renato Curcio e Alberto Franceschini, due dei capi storici. Da allora divenne per la sinistra italiana un infame. Si è rifatto una vita, si è sposato, ha avuto due figlie, è diventato capo della manutenzione di una grande azienda alberghiera. Ancora oggi gli dà fastidio che qualcuno continui a considerarlo una spia mentre lui si considera uno che si è sacrificato per il bene del suo Paese. E così ha deciso di raccontare la vera storia della sua vita in un libro, “Mi chiamavano Frate Mitra”. “Il libro è nato come l’esigenza di un padre che deve spiegare alle figlie perché ogni tanto il suo nome compare sui giornali. Avevo cominciato scrivendo una lettera. Poi la lettera è diventata un fascicolone. I Paolini lo seppero e mi chiesero di pubblicarlo”.
Che cosa provavano le sue figlie nei confronti della sua vita passata?
“Disagio e curiosità”.
La domanda che le facevano più spesso?
“Mi dicevano: è proprio vero che sei stato un prete? Ma non sei stato un prete come gli altri, no?”
Lei inizia il racconto con la sua adolescenza. Un’adolescenza turbolenta.
“L’adolescenza è una fase delicatissima del processo di maturazione di una persona. Si può facilmente imboccare una strada che può portare alla catastrofe. Ci si sente sicuri di sé, non si attribuisce alcun valore all’esperienza dei più grandi. E’ un momento pericoloso. L’altro giorno, scherzando con le mie figlie, ho detto: “Sono contento che siate sopravvissute alla vostra adolescenza”.
La sua era una famiglia borghese.
“Borghese ma non ricca. Papà faceva il carabiniere”.
L’educazione l’ha avuta buona quindi…
“Certamente. Avevo il permesso di uscire soltanto per andare all’oratorio dei salesiani”.
Ma poi finì con degli sbandati. A fare delle “bravate”.
“Ancora oggi non riesco a vedere quei gesti come cose gravi”.
Che la portarono in riformatorio.
“Avevamo scassinato una cassetta di bibite”.
E in galera?
“Un gruppo di ragazzetti della mia età, una banducola, alle tre di mattina decise di procurarsi delle sigarette. “C’è una tabaccheria che basta spingere una finestra per entrarci dentro, dice uno. Invece dentro c’era anche il tabaccaio che sorprese quello entrato. Colluttazione. Fuga generale. Noi rimasti fuori non avevamo nemmeno visto la scena della colluttazione. Ma per il codice penale quella era una rapina. E venne addebitato a tutti, non solo a quello entrato. Mi dettero sette anni. Ne ho fatti cinque”.
Tra il riformatorio e la galera ci fu la Legione Straniera.
“Avevo sedici anni, sentivo vergogna nei confronti della mia famiglia, decisi di rifarmi una vita. Fu un’esperienza durata pochissimo, tre mesi. Scappai dopo avere assistito a una tortura. Un episodio che forse forgiò anche il mio atteggiamento di ribellione assoluta contro l’ipocrisia della società”.
E poi la galera. Dove avvenne la conversione. Dal 63 al 69 visse in convento. Poi?
“Decisi di andare in America Latina, una scelta radicale per entrare in contatto con i poveri del mondo”.
In Bolivia. E scoprì la religione nei Paesi del sottosviluppo.
“Era molto in auge, allora, la cosiddetta Teologia della Liberazione, l’affermazione che non ci si poteva limitare soltanto a predicare e a promettere una vita migliore nell’aldilà ma ci doveva occupare anche dell’aldiqua. Il grande cambio dentro di me avvenne quando mi trovai nel pieno di un massacro, quando da un nido di mitragliatrici cominciarono a sparare sopra una folla di bambini e di mamme. Fu un momento di svolta: imbracciai le armi”.
Che cosa successe?
“Lanciai una granata e feci saltare il nido di mitragliatrici”.
Non ha paura di avere ucciso qualcuno?
“Purtroppo sono sicuro di averlo fatto. Una contraddizione da cui non sono ancora uscito. Non sono mai riuscito nemmeno a pentirmene”.
Nel libro lei giustifica anche la guerra in Afghanistan.
“Io non sono un buonista. Considero la violenza la situazione più terribile in cui un uomo possa trovarsi. Ma ritengo che a volte sia inevitabile. Io ho usato le armi contro l’ingiustizia, contro la dittatura, il massacro, gli squadroni della morte, sapendo che era l’unica strada”.
Quanto è durato il suo periodo “violento”?
“Dal 21 agosto 1971, giorno di quel massacro, all’11 settembre 1973, colpo di stato di Pinochet.
Ha mai avuto il sospetto di essere pervaso di narcisismo, di voglia di protagonismo?
“No, il fatto che io abbia dovuto intervenire perché una mitragliatrice stava massacrando donne e bambini non c’entra nulla col protagonismo. La considerazione di quello che ne avrebbero pensato gli altri non mi ha mai toccato”.
Anche quando, in seguito, si infiltrò nelle Brigate Rosse?
“Era proprio l’ultima cosa da fare se volevo guadagnarmi una buona fama. Il clima allora tirava dalla parte opposta. Ho affrontato 25 anni di linciaggio morale”.
Perché lo fece?
“Ero appena uscito da un incubo e vedevo che in Italia c’era qualcuno che voleva creare le condizioni perché quest’incubo si realizzasse anche da noi”.
E si mise in testa di fermarli. Si infiltrò. Fece catturare Alberto Franceschini e Renato Curcio, due dei capi storici. Erano quelli meno fanatici, quelli meno “militaristi”. Fino ad allora le Brigate Rosse non avevano ucciso. Da allora cominciò il bagno di sangue. I sospetti sono forti.
“La vicenda può essere letta anche così. Per un po’ l’ho pensato anch’io. Io avevo detto ai carabinieri di lasciarmi andare avanti. Che avrei potuto ottenere risultati ottimi, farli catturare tutti. Invece loro vollero affrettare l’operazione e si accontentarono di prendere loro due. Non so se per pressappochismo, per frenesia del risultato immediato o per qualcosa di più e di diverso. A questo quesito non ho risposta. Alla luce di quello che è successo dopo tutto può essere”.
Moretti era stato avvertito da una misteriosa telefonata che stava scattando la trappola per Curcio e Franceschini. Ma non riuscì – disse - ad avvertirli. E divenne il capo delle Br.
“Trovo francamente la spiegazione di Moretti piuttosto inconsistente”.
Non ha paura di essere stato strumento di un gioco che andava oltre lei?
“Quando penso che posso essere stato strumentalizzato, la cosa non mi fa piacere. Sono convinto che se non mi avessero fermato sarebbe cambiata la storia d’Italia. Non ci sarebbero stati gli anni di piombo. Ormai avevo la possibilità di eliminare le Brigate Rosse alla radice”.
Prese precauzioni dopo la cattura di Curcio e Franceschini?
“Tolsi il mio nome dall’elenco del telefono”.
Ebbe il coraggio di andare a testimoniare al processo di Torino. Tra le continue minacce dei brigatisti che avevano fatto fuggire giudici popolari e avvocati d’ufficio.
“Tutta quella stampa comunista che aveva promosso il mio linciaggio tacque questo fatto perché mal si conciliava con la figura dello spione traditore. Io traditore non sono mai stato.
Tanti anni dopo ha incontrato Franceschini.
“Ci siamo parlati per tre ore, ci siamo abbracciati. E’ un uomo estremamente equilibrato. Che si è riconciliato con il suo passato”.
A me ha detto che la considera quasi un angelo custode. Se non ci fosse stato lei sarebbe diventato sicuramente un assassino.
“A me ha detto: “Ti ho visto dieci minuti e mi sono fatto 18 anni di galera”.”
E Curcio?
Ci scriviamo. Ma non parliamo di quegli anni. Non vuole assolutamente avere nessun altra occasione di ricordarli. Un’operazione di rimozione totale.
Monday, April 25, 2005
uno strano cattolico del dissenso: silvano girotto intervistato oggi su corriere. "adua - ricordate frate mitra, silvano girotto, parroco a chapare, una sperduta regione dell’amazzonia, che negli anni ’70, in bolivia, per combattere la sanguinosa dittatura di hugo banzer, fondò il mir (movimento de izquierda revolutionaria), imbracciò il mitra e si diede alla guerriglia? il prete, allora si chiamava padre leone, che durante il colpo di stato di augusto pinochet in cile (l’11 settembre 1973), ricercato dalla polizia si rifugiò, assieme a decine di persone, nell’ambasciata italiana? colui che, tornato in italia, fu infiltrato dal generale dalla chiesa nelle brigate rosse e l’8 settembre 1974 fece catturare a pinerolo, renato curcio e alberto franceschini? ebbene, frate mitra si è trasferito ad adua (in etiopia, a pochi chilometri dal confine con l’eritrea) e aiuta la sorella laura, superiora delle suore salesiane, nella difficile gestione della più bella missione di tutta l’africa. silvano, 66 anni portati benissimo e occhi di un azzurro intenso, si è sposato parecchio tempo fa con carmen (boliviana e ex guerrigliera anche lei, il suo nome di battaglia era compagna laura) e ha due figlie che vivono in italia. la missione salesiana sorge a poche centinaia di metri dalla piana dove il primo marzo 1896 le truppe italiane subirono una storica sconfitta da parte dell’esercito etiopico del ras menelik ii. l’esperienza guerrigliera di silvano girotto, spesso considerata una «montatura» pilotata da più servizi segreti e usata dell’allora colonnello dalla chiesa per facilitarne l’infiltrazione nelle br, è stata seguìta dagli studi in ingegneria: ora cura la parte impiantistica. «non rimpiango niente del mio passato - racconta -. ho agito con coerenza e correttezza, sempre al fianco dei più deboli e bisognosi. in bolivia ho deciso di appoggiare la guerriglia quando ho visto l’esercito ammazzare oltre 500 persone e una settimana dopo le alte gerarchie della chiesa celebrare il "te deum", nella cattedrale di la paz, con invitato d’onore banzer. stessa cosa in cile, dove noi del mir avevamo le basi e avevamo trovato rifugio. l’assassino di allende, lo stadio dove venivano ammassati i "comunisti", e il "te deum" con i vescovi e pinochet. troppo». se non fosse successo tutto questo sarebbe ancora sacerdote? «certamente io non ho mai pensato di lasciare il mio ministero. mi hanno chiesto di abiurare il mio passato, di pentirmi di aver partecipato alla guerriglia. ci ho pensato e mi sono chiesto se valeva la pena abbandonare la mia gente, tradirla. ho detto no». poi si è sposato. .. «si, non lo avrei fatto se fossi rimasto prete, come avrei voluto. ma una volta fuori ho pensato di crearmi una famiglia e carmen è una donna straordinaria. mi ha aiutato moltissimo». la «compagna laura» di una volta è oggi un’infermiera professionale. nella missione si fa in quattro per chiunque e la piccola clinica della struttura, nata per aiutare gli studenti, è diventata un punto di riferimento per la popolazione di adua. «ci siamo conosciuti durante la guerriglia, poi ci siamo persi di vista quando a santiago ci siamo rifugiati in ambasciate diverse. io sono tornato in italia con il primo aereo che ha rimpatriato i nostri connazionali. dopo un po’ lei mi ha chiesto aiuto e l’ho fatta venire da noi». silvano girotto, che ha scritto un libro sulla sua storia («mi chiamavano padre mitra») era ad adua quando è scoppiato il conflitto tra etiopia ed eritrea: «abbiamo aiutato i profughi che arrivavano in missione senza nulla. almeno centocinquantamila persone sono passate da qui chiedendo aiuto. chi paga per le guerre è la povera gente. ho sempre presente nella mia mente benjamin, un ragazzino che aveva 14 anni. conservo la sua foto in camera. era intelligentissimo e voleva fare l’elettricista. lo portavo con me a mettere a posto gli impianti della missione. quando gli ho regalato un cacciavite e una pinza era felicissimo. un giorno è sparito. si è arruolato per difendere la sua gente, mi ha detto. so che appena arrivato al fronte me l’hanno ammazzato». c’è molta differenza tra l’america latina e l’africa. «sono situazioni assai diverse, ma ho visto molti morti sia lì che qui e vorrei non vederli mai più. desidererei che la chiesa, cui sono ancora molto legato, facesse di più per i poveri, i diseredati, i paria del mondo. e invece mi accorgo che resta lontana dalla realtà». una realtà che è sempre più drammatica: fame, carestie, la piaga dell’aids. la teologia della liberazione che si sviluppò in sud america negli anni ’70 avrebbe potuto aiutare? «certamente, ma la chiesa di roma non ne volle sapere. da un lato l’apertura di paolo vi, che addirittura in casi particolarmente drammatici ammetteva la lotta armata, dall’altro l’allora cardinale ratzinger che ispirava i corposi documenti con cui si condannava la teologia della liberazione. le contraddizioni della chiesa risiedono nel fatto che non riesce a capire le condizioni della gente del terzo mondo. la condanna dei preservativi assomiglia tanto alla condanna inflitta a galileo. per ragionare nei villaggi africani non si possono usare gli stessi metri che si adoperano nelle ovattate sale del vaticano». e i rapporti con i brigatisti che fece catturare? «li ho incontrati e siamo diventati amici. abbiamo parlato e discusso. mi hanno dato ragione. mi sono associato alla guerriglia in america latina, in condizioni particolari, sotto la cappa di una feroce dittatura. in italia non c’erano le condizioni per la lotta armata. era assolutamente fuori luogo pensarlo. da noi non c’era una dittatura che ammazzava i contadini e la povera gente. ora anche loro sono d’accordo con me». nella trappola scattata a pinerolo doveva esserci anche mario moretti. «sì, all’appuntamento doveva esserci anche lui. ma all’ultimo momento fu avvisato da una telefonata che se ne stesse lontano. non so chi l’abbia avvisato, ma di quell’incontro sapeva soltanto un pugno di persone e nessun’altro. strano che sia sfuggito, vero?»".
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· 1 Biografia
o 1.1 I primi anni
o 1.2 Sud America
o 1.3 Infiltrato nelle BR
o 1.4 Vita normale
· 2 Bibiliografia
· 3 Voci correlate
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[modifica] Biografia
[modifica] I primi anni
Figlio di un maresciallo dei Carabinieri, si arruolò nella Legione straniera finendo in Algeria al tempo della rivolta, da cui in seguito disertò.
Al rientro in Italia venne coinvolto in un furto in una tabaccheria finendo nelle carceri torinesi. Successivamente entrò nell'Ordine francescano assumendo il nome di padre Leone (uno dei più fedeli compagni di San Francesco), indossando il saio il 10 ottobre 1964.
Nel 1969 contribuì a sedare la rivolta nelle Carceri Nuove di Torino fecendo il mediatore, quindi chiese ai suoi superiori di essere inviato come missionario nel Terzo Mondo.
[modifica] Sud America
Giunto in Bolivia, uno dei paesi più poveri dell'America latina a quel tempo, come missionario, si trovò coinvolto nella guerriglia e dovette darsi alla macchia, riparando quindi in Cile nel 1971, ottenendo asilo come profugo politico e ove poi assistette agli avvenimenti legati al golpe di Pinochet del 1973.
Durante la sua latitanza armata in Sudamerica venne dimissionato, ossia espulso dall'Ordine Francescano nel 1973, tramite un decreto emesso dalla curia provinciale dell'ordine dei frati minori di Torino, in cui era espressamente citata la sua partecipazione alla lotta armata.
Per questo motivo e per la sua militanza nella guerriglia sudamericana all'inizio degli anni settanta venne soprannominato "frate mitra". Questo era il soprannome con cui era conosciuto nell'ambito delle Brigate Rosse tra le cui fila si sarebbe infiltrato in incognito, per conto dello stato.
[modifica] Infiltrato nelle BR
Nel luglio del 1974 Girotto entrò nelle BR; grazie alle sue informazioni si arrivò all'arresto, l'8 settembre dello stesso anno, di due dei fondatori dell'organizzazione terroristica, Alberto Franceschini e Renato Curcio, nonché di alcuni esponenti del suo gruppo dirigente.
In un'intervista del 1975 Silvano Girotto, "Frate Mitra", affermò: "io non sono concettualmente contrario alla lotta armata (...) ma lo sono quando essa non è necessaria. La mia avversione alla lotta armata è qui, in Italia... non c'è stato alcun cambiamento di linea politica da parte mia, ancora oggi se tornassi in America latina riprenderei il mitra perché so che purtroppo laggiù non esiste alternativa ma è desolante vedere che anche nel mio paese si vuol arrivare a quel tipo di situazione quando invece è ancora evitabile."
[modifica] Vita normale
Dopo il processo alle Brigate Rosse, andò a lavorare per qualche anno come capo tecnico impiantista negli Emirati Arabi e poi nello Yemen, per quindi ritornare in Italia nel 1981 e stabilirsi a vivere nel Piemonte.
[modifica] Bibiliografia
Silvano Girotto. Mi Chiamavano frate mitra, Ed. Paoline 2002,
Silvano Girotto
Il frate spia
Silvano Girotto, l’uomo che fece arrestare definitivamente Renato Curcio
La fine della primavera è decisamente sfavorevole alle bierre, in questo periodo, l’agente provocatore Silvano Girotto inizia la sua collaborazione con i CC: viene scoperta una base abbandonata a Pianello Val Tidone: tracce trovate nel rustico, condurranno al grande archivio di Robbiano di Mediglia (importante base delle bierre). Dunque, il mese di Maggio non è ancora trascorso che, avvicinato dal capitano dei CC Gustavo Pignoro, del nucleo speciale di p.g., l’ex frate francescano inizia la sua “collaborazione e inimicizia militante” nei confronti delle bierre. Che cosa lo spinge a vendersi?Motivazioni politiche, assicura. Nella sua autobiografia intitolata “Padre Leone”, spiega:”la polizia brancola nel buio, nonostante la formazione di organismi contro il terrorismo che sanno organizzare ottime conferenze stampa, ma quando a pescare i brigatisti non dimostrano la stessa perizia. Non è cattiva volontà, ce la mettono tutta.
Il fatto è che le bierre sono strutturate in modo diverso dalle solite bande criminali. Applicano anche i modelli e le esperienze e della guerriglia sudamericana(guerra per bande di Che Guevara). Alla polizia manca l’esperienza e le leggi, grazie a Dio,tutelano abbastanza i diritti individuali. Cosa di cui le bierre approfittano. Nel chiuso della mia stanza rifletto su queste cose. Sono irritato, indignato dalla pazzia incosciente di questi provocatori. La crisi economica si aggrava, l’inflazione avanza, si profila all’orizzonte una serie di lotte che i lavoratori dovranno sostenere per non perdere ciò che hanno conquistato in tanti anni. Leggi e organismi repressivi, se maneggiati opportunamente, in strumenti di persecuzione e intimidazione della classe operaia e delle sue organizzazioni di lotta”
Con questo stato d’animo, assicura, accetta di collaborare con i carabinieri. Al capitano Pignoro fa presente: “ non posso garantire nulla perché delle bierre non so nulla o quasi. Intendo però instaurare un rapporto di collaborazione, non intendo fare il confidente”. Non sarà accontentato : in occasione dell’arresto di Curcio e Franceschini, i carabinieri per coprire la”fonte” confidenziale stendono addirittura un rapporto falso.
Girotto vuole”sfruttare la curiosità e l’interesse che le bierre possono avere nei miei confronti, vista la “leggenda” che intorno a me si è creata”. In effetti i guerriglieri si mostreranno sensibili al fascino del revolucionario, crederanno alle garanzie che qualche personaggio ritenuto attendibile e fidato darà per lui.
Girotto arriverà a Curcio e Franceschini e li farà arrestare. L’ex frate batte a tappeto tutti gli ambienti tenta di coinvolgere tutti gli ambienti, tenta di coinvolgere molta gente. Al giudice istruttore, sotto giuramento, dirà: “ avevo cercato di documentarmi sulle bierre leggendo quanto giornali venivano pubblicando sull’argomento. Ricordo in particolare di avere letto su “ Panorama” un pezzo che diceva che molti brigatisti si erano formati nella zona di Borgomanero.
Io ero stato religioso in Omega e , nella zona, ero pertanto molto conosciuto. Tornato dal Cile molti mi avevano cercato e , tra costoro, Alberto Caldi, uno che quando ero a Omega mi veniva sempre dietro”.
Girotto incontra Caldi, gli confida di voler riprendere l’attività politica e di essere alla ricerca di un canale che gli permetta un contatto con i gruppi extraparlamentari di sinistra più radicalizzati.
Caldi gli procura un incontro con l’avvocato Riccardo Borgna, di Omega, fama di sincero democratico e di solida famiglia dc alle spalle. C’è una cena, nella “ bellissima villa sul lago d’Orta” del professionista. Dalla deposizione:” si parlò del più e del meno.Io mi atteggiavo a estremista, per fornire un’esca, ma Borgna non pareva sensibile: quando il discorso cadeva sulle bierre, cercava , anzi,di evitare l’argomento”.
Girotto già teme un fiasco, quando,al momento dei saluti, l’avvocato gli si avvicina e, con aria da cospiratore, gli sussurra:” bisogna che ci rivediamo, per cose concrete. Si tratta delle Brigate rosse”. Nuovo colloquio qualche tempo dopo, non più a casa ma nello studio. “ Voglio assumere il mio posto di combattimento “ dichiara l’ex frate, Borgna è ben disposto, il contatto con le bierre ci sarà.
Ancora un incontro sulle rive del lago d’Orta. Dalla dichiarazione” a futura memoria” di Girotto:” Borgna mi disse che Levati, col quale intendeva mettermi in contatto, era in Val D’Aosta, e che se non fosse riuscito a parlare con lui avrebbe altri canali. In ogni caso disse che gli occorrevano ancora otto giorni”
L’avvocato negherà di aver parlato di “altri canali” ma non smentisce la sostanza delle richieste del frate spia.
Da: Imputazione: banda armata
Silvano Girotto oggi
Nelle foto dell’epoca sembra Jovanotti. Era un frate. Un frate un po’ turbolento. Da ragazzino era stato in riformatorio. Da adolescente nella Legione Straniera. Da giovanotto in galera. Poi in convento. Poi nelle favelas sudamericane. Poi nella guerriglia armata. Il suo nome era Silvano Girotto ma lo chiamavano Frate Mitra. Divenne famoso il giorno in cui si infiltrò nelle Brigate Rosse e fece catturare Renato Curcio e Alberto Franceschini, due dei capi storici. Da allora divenne per la sinistra italiana un infame. Si è rifatto una vita, si è sposato, ha avuto due figlie, è diventato capo della manutenzione di una grande azienda alberghiera. Ancora oggi gli dà fastidio che qualcuno continui a considerarlo una spia mentre lui si considera uno che si è sacrificato per il bene del suo Paese. E così ha deciso di raccontare la vera storia della sua vita in un libro, “Mi chiamavano Frate Mitra”. “Il libro è nato come l’esigenza di un padre che deve spiegare alle figlie perché ogni tanto il suo nome compare sui giornali. Avevo cominciato scrivendo una lettera. Poi la lettera è diventata un fascicolone. I Paolini lo seppero e mi chiesero di pubblicarlo”.
Che cosa provavano le sue figlie nei confronti della sua vita passata?
“Disagio e curiosità”.
La domanda che le facevano più spesso?
“Mi dicevano: è proprio vero che sei stato un prete? Ma non sei stato un prete come gli altri, no?”
Lei inizia il racconto con la sua adolescenza. Un’adolescenza turbolenta.
“L’adolescenza è una fase delicatissima del processo di maturazione di una persona. Si può facilmente imboccare una strada che può portare alla catastrofe. Ci si sente sicuri di sé, non si attribuisce alcun valore all’esperienza dei più grandi. E’ un momento pericoloso. L’altro giorno, scherzando con le mie figlie, ho detto: “Sono contento che siate sopravvissute alla vostra adolescenza”.
La sua era una famiglia borghese.
“Borghese ma non ricca. Papà faceva il carabiniere”.
L’educazione l’ha avuta buona quindi…
“Certamente. Avevo il permesso di uscire soltanto per andare all’oratorio dei salesiani”.
Ma poi finì con degli sbandati. A fare delle “bravate”.
“Ancora oggi non riesco a vedere quei gesti come cose gravi”.
Che la portarono in riformatorio.
“Avevamo scassinato una cassetta di bibite”.
E in galera?
“Un gruppo di ragazzetti della mia età, una banducola, alle tre di mattina decise di procurarsi delle sigarette. “C’è una tabaccheria che basta spingere una finestra per entrarci dentro, dice uno. Invece dentro c’era anche il tabaccaio che sorprese quello entrato. Colluttazione. Fuga generale. Noi rimasti fuori non avevamo nemmeno visto la scena della colluttazione. Ma per il codice penale quella era una rapina. E venne addebitato a tutti, non solo a quello entrato. Mi dettero sette anni. Ne ho fatti cinque”.
Tra il riformatorio e la galera ci fu la Legione Straniera.
“Avevo sedici anni, sentivo vergogna nei confronti della mia famiglia, decisi di rifarmi una vita. Fu un’esperienza durata pochissimo, tre mesi. Scappai dopo avere assistito a una tortura. Un episodio che forse forgiò anche il mio atteggiamento di ribellione assoluta contro l’ipocrisia della società”.
E poi la galera. Dove avvenne la conversione. Dal 63 al 69 visse in convento. Poi?
“Decisi di andare in America Latina, una scelta radicale per entrare in contatto con i poveri del mondo”.
In Bolivia. E scoprì la religione nei Paesi del sottosviluppo.
“Era molto in auge, allora, la cosiddetta Teologia della Liberazione, l’affermazione che non ci si poteva limitare soltanto a predicare e a promettere una vita migliore nell’aldilà ma ci doveva occupare anche dell’aldiqua. Il grande cambio dentro di me avvenne quando mi trovai nel pieno di un massacro, quando da un nido di mitragliatrici cominciarono a sparare sopra una folla di bambini e di mamme. Fu un momento di svolta: imbracciai le armi”.
Che cosa successe?
“Lanciai una granata e feci saltare il nido di mitragliatrici”.
Non ha paura di avere ucciso qualcuno?
“Purtroppo sono sicuro di averlo fatto. Una contraddizione da cui non sono ancora uscito. Non sono mai riuscito nemmeno a pentirmene”.
Nel libro lei giustifica anche la guerra in Afghanistan.
“Io non sono un buonista. Considero la violenza la situazione più terribile in cui un uomo possa trovarsi. Ma ritengo che a volte sia inevitabile. Io ho usato le armi contro l’ingiustizia, contro la dittatura, il massacro, gli squadroni della morte, sapendo che era l’unica strada”.
Quanto è durato il suo periodo “violento”?
“Dal 21 agosto 1971, giorno di quel massacro, all’11 settembre 1973, colpo di stato di Pinochet.
Ha mai avuto il sospetto di essere pervaso di narcisismo, di voglia di protagonismo?
“No, il fatto che io abbia dovuto intervenire perché una mitragliatrice stava massacrando donne e bambini non c’entra nulla col protagonismo. La considerazione di quello che ne avrebbero pensato gli altri non mi ha mai toccato”.
Anche quando, in seguito, si infiltrò nelle Brigate Rosse?
“Era proprio l’ultima cosa da fare se volevo guadagnarmi una buona fama. Il clima allora tirava dalla parte opposta. Ho affrontato 25 anni di linciaggio morale”.
Perché lo fece?
“Ero appena uscito da un incubo e vedevo che in Italia c’era qualcuno che voleva creare le condizioni perché quest’incubo si realizzasse anche da noi”.
E si mise in testa di fermarli. Si infiltrò. Fece catturare Alberto Franceschini e Renato Curcio, due dei capi storici. Erano quelli meno fanatici, quelli meno “militaristi”. Fino ad allora le Brigate Rosse non avevano ucciso. Da allora cominciò il bagno di sangue. I sospetti sono forti.
“La vicenda può essere letta anche così. Per un po’ l’ho pensato anch’io. Io avevo detto ai carabinieri di lasciarmi andare avanti. Che avrei potuto ottenere risultati ottimi, farli catturare tutti. Invece loro vollero affrettare l’operazione e si accontentarono di prendere loro due. Non so se per pressappochismo, per frenesia del risultato immediato o per qualcosa di più e di diverso. A questo quesito non ho risposta. Alla luce di quello che è successo dopo tutto può essere”.
Moretti era stato avvertito da una misteriosa telefonata che stava scattando la trappola per Curcio e Franceschini. Ma non riuscì – disse - ad avvertirli. E divenne il capo delle Br.
“Trovo francamente la spiegazione di Moretti piuttosto inconsistente”.
Non ha paura di essere stato strumento di un gioco che andava oltre lei?
“Quando penso che posso essere stato strumentalizzato, la cosa non mi fa piacere. Sono convinto che se non mi avessero fermato sarebbe cambiata la storia d’Italia. Non ci sarebbero stati gli anni di piombo. Ormai avevo la possibilità di eliminare le Brigate Rosse alla radice”.
Prese precauzioni dopo la cattura di Curcio e Franceschini?
“Tolsi il mio nome dall’elenco del telefono”.
Ebbe il coraggio di andare a testimoniare al processo di Torino. Tra le continue minacce dei brigatisti che avevano fatto fuggire giudici popolari e avvocati d’ufficio.
“Tutta quella stampa comunista che aveva promosso il mio linciaggio tacque questo fatto perché mal si conciliava con la figura dello spione traditore. Io traditore non sono mai stato.
Tanti anni dopo ha incontrato Franceschini.
“Ci siamo parlati per tre ore, ci siamo abbracciati. E’ un uomo estremamente equilibrato. Che si è riconciliato con il suo passato”.
A me ha detto che la considera quasi un angelo custode. Se non ci fosse stato lei sarebbe diventato sicuramente un assassino.
“A me ha detto: “Ti ho visto dieci minuti e mi sono fatto 18 anni di galera”.”
E Curcio?
Ci scriviamo. Ma non parliamo di quegli anni. Non vuole assolutamente avere nessun altra occasione di ricordarli. Un’operazione di rimozione totale.
Monday, April 25, 2005
uno strano cattolico del dissenso: silvano girotto intervistato oggi su corriere. "adua - ricordate frate mitra, silvano girotto, parroco a chapare, una sperduta regione dell’amazzonia, che negli anni ’70, in bolivia, per combattere la sanguinosa dittatura di hugo banzer, fondò il mir (movimento de izquierda revolutionaria), imbracciò il mitra e si diede alla guerriglia? il prete, allora si chiamava padre leone, che durante il colpo di stato di augusto pinochet in cile (l’11 settembre 1973), ricercato dalla polizia si rifugiò, assieme a decine di persone, nell’ambasciata italiana? colui che, tornato in italia, fu infiltrato dal generale dalla chiesa nelle brigate rosse e l’8 settembre 1974 fece catturare a pinerolo, renato curcio e alberto franceschini? ebbene, frate mitra si è trasferito ad adua (in etiopia, a pochi chilometri dal confine con l’eritrea) e aiuta la sorella laura, superiora delle suore salesiane, nella difficile gestione della più bella missione di tutta l’africa. silvano, 66 anni portati benissimo e occhi di un azzurro intenso, si è sposato parecchio tempo fa con carmen (boliviana e ex guerrigliera anche lei, il suo nome di battaglia era compagna laura) e ha due figlie che vivono in italia. la missione salesiana sorge a poche centinaia di metri dalla piana dove il primo marzo 1896 le truppe italiane subirono una storica sconfitta da parte dell’esercito etiopico del ras menelik ii. l’esperienza guerrigliera di silvano girotto, spesso considerata una «montatura» pilotata da più servizi segreti e usata dell’allora colonnello dalla chiesa per facilitarne l’infiltrazione nelle br, è stata seguìta dagli studi in ingegneria: ora cura la parte impiantistica. «non rimpiango niente del mio passato - racconta -. ho agito con coerenza e correttezza, sempre al fianco dei più deboli e bisognosi. in bolivia ho deciso di appoggiare la guerriglia quando ho visto l’esercito ammazzare oltre 500 persone e una settimana dopo le alte gerarchie della chiesa celebrare il "te deum", nella cattedrale di la paz, con invitato d’onore banzer. stessa cosa in cile, dove noi del mir avevamo le basi e avevamo trovato rifugio. l’assassino di allende, lo stadio dove venivano ammassati i "comunisti", e il "te deum" con i vescovi e pinochet. troppo». se non fosse successo tutto questo sarebbe ancora sacerdote? «certamente io non ho mai pensato di lasciare il mio ministero. mi hanno chiesto di abiurare il mio passato, di pentirmi di aver partecipato alla guerriglia. ci ho pensato e mi sono chiesto se valeva la pena abbandonare la mia gente, tradirla. ho detto no». poi si è sposato. .. «si, non lo avrei fatto se fossi rimasto prete, come avrei voluto. ma una volta fuori ho pensato di crearmi una famiglia e carmen è una donna straordinaria. mi ha aiutato moltissimo». la «compagna laura» di una volta è oggi un’infermiera professionale. nella missione si fa in quattro per chiunque e la piccola clinica della struttura, nata per aiutare gli studenti, è diventata un punto di riferimento per la popolazione di adua. «ci siamo conosciuti durante la guerriglia, poi ci siamo persi di vista quando a santiago ci siamo rifugiati in ambasciate diverse. io sono tornato in italia con il primo aereo che ha rimpatriato i nostri connazionali. dopo un po’ lei mi ha chiesto aiuto e l’ho fatta venire da noi». silvano girotto, che ha scritto un libro sulla sua storia («mi chiamavano padre mitra») era ad adua quando è scoppiato il conflitto tra etiopia ed eritrea: «abbiamo aiutato i profughi che arrivavano in missione senza nulla. almeno centocinquantamila persone sono passate da qui chiedendo aiuto. chi paga per le guerre è la povera gente. ho sempre presente nella mia mente benjamin, un ragazzino che aveva 14 anni. conservo la sua foto in camera. era intelligentissimo e voleva fare l’elettricista. lo portavo con me a mettere a posto gli impianti della missione. quando gli ho regalato un cacciavite e una pinza era felicissimo. un giorno è sparito. si è arruolato per difendere la sua gente, mi ha detto. so che appena arrivato al fronte me l’hanno ammazzato». c’è molta differenza tra l’america latina e l’africa. «sono situazioni assai diverse, ma ho visto molti morti sia lì che qui e vorrei non vederli mai più. desidererei che la chiesa, cui sono ancora molto legato, facesse di più per i poveri, i diseredati, i paria del mondo. e invece mi accorgo che resta lontana dalla realtà». una realtà che è sempre più drammatica: fame, carestie, la piaga dell’aids. la teologia della liberazione che si sviluppò in sud america negli anni ’70 avrebbe potuto aiutare? «certamente, ma la chiesa di roma non ne volle sapere. da un lato l’apertura di paolo vi, che addirittura in casi particolarmente drammatici ammetteva la lotta armata, dall’altro l’allora cardinale ratzinger che ispirava i corposi documenti con cui si condannava la teologia della liberazione. le contraddizioni della chiesa risiedono nel fatto che non riesce a capire le condizioni della gente del terzo mondo. la condanna dei preservativi assomiglia tanto alla condanna inflitta a galileo. per ragionare nei villaggi africani non si possono usare gli stessi metri che si adoperano nelle ovattate sale del vaticano». e i rapporti con i brigatisti che fece catturare? «li ho incontrati e siamo diventati amici. abbiamo parlato e discusso. mi hanno dato ragione. mi sono associato alla guerriglia in america latina, in condizioni particolari, sotto la cappa di una feroce dittatura. in italia non c’erano le condizioni per la lotta armata. era assolutamente fuori luogo pensarlo. da noi non c’era una dittatura che ammazzava i contadini e la povera gente. ora anche loro sono d’accordo con me». nella trappola scattata a pinerolo doveva esserci anche mario moretti. «sì, all’appuntamento doveva esserci anche lui. ma all’ultimo momento fu avvisato da una telefonata che se ne stesse lontano. non so chi l’abbia avvisato, ma di quell’incontro sapeva soltanto un pugno di persone e nessun’altro. strano che sia sfuggito, vero?»".