Friday, June 29, 2007
OSPITI : Molteni
Terrore nella foresta03/03/2006di Molteni (Invia un messaggio all'autore)
Terrore nella foresta.Loro non m’avevano visto ma io si. Evidentemente ero più agitato di loro, più della maggior parte della gente, e solo raramente la cosa era un vantaggio.. Se serviva, adesso era un vantaggio. Sbucarono da dietro un gruppo di grosse querce in fondo a un canalone. Io ero in alto, a favore. Mi appiattii dietro un leccio e rimasi a spiarli. Trattenei il respiro e li osservai muoversi da dietro un tronco. Un lupo. Sapete, dentro a un bosco le cose sono un po’ diverse. Provate a immaginare migliaia di piccoli rumori sovrapposti, incessanti. Una volta fuori da lì, l’unico ricordo è il silenzio. Battiti d’ali, richiami improvvisi d’uccelli, roditori, scoiattoli e rettili che frusciano tra il fogliame del sottobosco. Ma l’elemento in assoluto dominante è il silenzio. Solo i vostri piedi sulle foglie e i vostri poveri pensieri. E poi quella specie di penombra, quella foschia costante che rende le ore tutte uguali. I colori cambiano tutti dentro una tonalità bruna, imprecisa. Però mentre puntate verso le foreste il sole picchia sui vetri dell’auto, infuoca l’abitacolo. La luce è intensa, il cielo sgombro. Le case e gli alberi sono netti, colorati, ritagliati contro l’orizzonte. Luci, colori, clacson. Tutto chiaro. Tutta roba che conoscete bene. Siete di buon umore, vi sentite ben disposti verso il prossimo. E’ una bella giornata. Per strada è sempre difficile immaginare come sarà là dentro. E’ difficile immaginare il buio in piena luce, come il dolore, mentre si gode.Fatti cento metri dentro la macchia, le cose cambiano. Il sole non scalda, la luce è bassa, ammuffita. Solo qualche sottile filo luminoso che fora le foglia e incendia un cerchietto a terra, ma non basta. Foglie marce. Brividi. L’umido trapassa i vestiti. Foschia, rumori di esseri invisibili. Dopo altri cinquanta metri vi rendete conto che il vostro umore è decisamente cambiato. Non è paura, non lo sapete cos’è, ma vi sentite diversi. Bene. Io drizzavo il pelo e alleggerivo il passo, spalancavo gli occhi e procedevo. Niente pensieri, solo pelo e orecchie dritte. E quindi li vidi per primo, in fondo al canalone. Non mi piacquero. I funghi erano una scusa. Mi rintanavo sui monti per fuggire dai miei simili e quando ne incontravo qualcuno nel fitto della foresta mi faceva sempre un cattivo effetto. E quelli erano brutti. Due facce ostili. Pesanti. Uno giovane e l’altro più vecchio. Padre e figlio forse. Belli robusti, tozzi, silenziosi. Brutti e pericolosi. Spandevano intorno un alone di diffidenza e odio per un raggio di cinquecento metri abbondanti. I coltelli sporchi di terra nella destra. Disegnavano intorno un cerchio di morte. Il bosco era infettato dalla loro presenza, e non mi sbagliavo. Là dentro certe cose si sentono bene. Portavano addosso due magliacce di lana logora, calzoni lisi, scarponi pesanti, i canestri stracolmi. Distinsi chiaramente russole e porcini. Guardai nel mio canestro. C’erano otto funghi senza merito, un paio anche trapassati e pieni di vermi. Si muovevano tra i rovi con sicurezza. Erano del posto. Montanari ostili e diffidenti. All’occorrenza ladri e bracconieri. Ottusi, crudeli.La spietata gente di città. E quella di montagna allora? pure peggio, solo che meno rumorosa. Stanno attento a evitare i clamori e non sconfinano mai. Non ce li troverete a rubare in casa vostra o in un ufficio postale armi in pugno, questo è certo. Ma in casa loro la musica cambia. Odiano gli intrusi e sono senza scrupoli. Basta saperlo. Io lo sapevo, sapevo un sacco di cose, tutte utili, ma non ne traevo mai giovamento. Sapevo come la pensavano, ero io l’intruso, ma avevo diritto quanto loro di stare lì. Il bosco era di tutti, non dovevano infastidirmi. Insomma, li avevo presi male.Uscii da dietro il leccio e puntai verso di loro. Come mi mossi i montanari alzarono la testa e mi videro. Ero a trenta metri. S’innervosirono, ma fecero finta di niente. Tornarono a frugare tra le foglie. Furboni. Avanzai con calma sforzandomi di apparire rilassato, ma quelli non guardavano. Guardavano ovunque tranne che nella mia direzione. Accelerai giù per la scarpata. Fra un po’ l’avrebbero alzata la testa.Le sponde del canalone erano umide e scoscese. Faticavo a rimanere in piedi. Sentivo le suole partire sopra l’erba bagnata e avevo i muscoli delle cosce in fiamme. Ad ogni passo scivolavo e rischiavo di franare a valle. Quelli si muovevano con gran disinvoltura, senza nessuno sforzo apparente. Avanzai ancora. Continuarono a frugare in terra. Frugavano e mi slumavano da lontano. Quando s’accorsero che m’avvicinavo mi voltarono le spalle e s’allontanarono verso il fondo del canalone. Li avevo innervositi. Bene. La mia presenza gli stava rovinando la mattinata, ma non era mica il loro il bosco. Improvvisamente la sponda divenne più scoscesa. Dall’alto non sembrava. Mi fermai a osservare lo strapiombo. Era impraticabile. Come facevano quelli? Eppure continuavano a scendere. Le radici delle querce affioravano tra l’erba. Pensai di usarle come gradini. Allungai un piede e agganciai il tacco su una radica. Funzionava. Scesi per un pò con quel sistema. Poi misi un piede in vuoto. Credevo di aver visto una radice in mezzo all’erba, invece non c’era. Scivolai all’indietro ma non m’arresi. Sgambettai come un pazzo sopra l’erba viscida cercando di ritrovare l’equilibrio. A un certo punto le suole ritrovarono aderenza sopra a qualcosa di ruvido. Diedi un colpo di reni per tornare in verticale, ma spinsi troppo forte e mi catapultai in avanti nel vuoto. Feci una capriola completa in aria e atterrai di schiena. Una gran schienata. Scivolai per otto dieci metri e m’arrestai col culo contro un masso. Rimasi immobile qualche istante. Ero intontito, mi ronzavano le orecchie. Mi faceva male tutto. Chiusi gli occhi e scossi la testa. Avevo perso l’orientamento. Rimasi così per un po’, poi alzai la testa e mi resi conto che ero faccia a valle. Guardai verso il basso. I due umanoidi erano a dieci metri da me. Io ero sdraiato, intrecciato tra ai rovi. Non avevano nemmeno alzato la testa. E se ero grave? carogne. Mi guardai le gambe. Avevo i pantaloni strappati dall’orlo al ginocchio. Le tastai. Poi controllai più su. Mi toccai addosso. Controllai braccia e testa. Niente sangue. Sembrava tutto a posto, ero solo stordito. Ero sporco di fango fino ai capelli e i pantaloni erano da buttare. Mi sentivo spettinato, incrostato. Il canestro era rotolato quindici metri più a valle e nella caduta m’ero perso il coltello. Il coltelletto col manico d’osso. Perso per sempre. Ero affezionato a quel coltello. L’avevo comprato al mare, ce l’avevo da dieci anni. Perso. Ma ero tutto intero. Solo che non ci sentivo, era tutto ovattato, lontano. A un certo punto ebbi paura. Non ci sentivo più. Nella caduta m’ero lesionato l’udito. Infilai due dita nelle orecchie e provai a scuotere il meccanismo. Non ci sentivo più, ero sordo. Le infilai dentro e cominciai a scuotere. Ne uscirono due manciate di terra. Svuotai i padiglioni e automaticamente mi tornò l’udito. Mi alzai in piedi e mi diedi due botte per togliermi di dosso foglie e terriccio. Osservai il dirupo e operai un calcolo veloce di distanze e dislivelli, poi mi buttai giù per la scarpata a vita persa e a grossi balzi raggiunsi il mio canestro. I funghi non c’erano più. Le carogne mi lanciavano occhiate furtive dal fondo del canalone. Mi sembrò di sentirli ridere. Puntai verso di loro. Mi mossi in orizzontale scendendo un passo alla volta, con calma. Intanto finsi di cercare tra le foglie. Dietro un fascio di carpini vidi un gruppo di Russole Persicine. Non mortali, però tossiche. I sintomi dell’intossicazione più o meno erano quelli, nausea, vomito e diarrea. Il decorso dell’intossicazione di 10 – 12 ore. Le raccolsi tutte e le poggiai delicatamente sul fondo del canestro. Feci cinque metri e raccolsi tre Amanite Panterine : Tossiche. Danno luogo ad avvelenamenti abbastanza seri, con disturbi nervosi ed intestinali. Buttai tutto dentro al canestro. Ero a sei metri dai montanari. Mi voltavano le spalle di brutto. Erano nervosi. Li sentivo vibrare. Li raggiunsi e mi piazzai dietro di loro." Buongiorno. " Niente. Vibravano sempre più forte. Insistetti." Trovato qualcosa?..." non risposero." ...Niente? " Non rompevo i coglioni, volevo solo un contatto. Ma la verità e che erano due carogne, me n’ero accorto subito, da lontano. Dalle facce, dagli stracci luridi che portavano addosso, da come si muovevano. Ero lì per verificare.Mi avvicinai di più e misi il naso nel canestro di quello più vecchio. Gli stavo addosso. Puzzava di selvatico. Il canestro era stracolmo di Boletus Aereus. Porcini Neri. Mi tolse il canestro da sotto e mi fissò cattivo. Occhietti piccoli e acquosi da porco. Pelle infiammata da freddo e vento. Barba ispida di una settimana. Grosso coltellaccio nella destra. Non mi faceva nessuna paura." Ah, Però! Porcini? "" No. " rispose. Erano porcini, altrochè, i più pregiati. " E questi? Sono buoni? " gli piazzai il mio canestro davanti al muso. Buttò un’occhiata di sfuggita poi mi guardò in faccia." Buoni. " affermò. Si avvicinò anche quello più giovane. Guardò dentro pure lui. Si si, fece con la testa. Bastardi. Era pronti ad avvelenarmi." Siete sicuri che sono buoni? " presi su l’Amanite e me la girai davanti al naso " strano, ’sto fungo mi ricorda....non lo so, forse un fungo che ho visto in un libro,....proprio sicuri che sono buoni? "" Si " confermò il barbuto " buoni. "" Allora vado tranquillo, he? "Non risposero." Ma, dico, voi ve ne intendete? Mi posso fidare? "" Và a casa e facci un risotto se non ti fidi, e poi vedi. "" Non posso. Coi funghi non si scherza. Per questo l’ho chiesto a voi. Però, sapete com’è, è anche difficile fidarsi. Ci sono in giro certe carogne pronte a far crepare con la bava alla bocca un povero cristo, magari solo per non ritrovarselo tra i piedi la prossima volta. “Accusarono il colpo. S’irrigidirono e si fecero sotto. Alzarono le lame dei coltelli. Non me li puntavano, erano sempre bassi, ma prima le lame erano puntate a terra, adesso indicavano il mio ventre come aghi di bussole. Avevano due brutte facce. Fu come se le vedessi per la prima volta. In quel momento realizzai che ero da solo contro due e non avevo più il coltello. Mi venne in mente che non sapevo affatto con chi avevo a che fare. Mi venne in mente che ero un idiota. Se uno non lo conosci, agli incroci, nei locali, dentro a un vicolo, non sai mai con chi hai veramente a che fare. Ci vuole prudenza. Magari lo capisci che si tratta d’una carogna, ma non sai fino a che punto è pronto ad arrivare. Era una cosa che sapevo bene. Perchè commettevo sempre gli stessi errori? Potevo tranquillamente beccarmi due coltellate e finire in fondo al canalone. M’avrebbero trovato dopo quindici giorni mezzo divorato dai cinghiali. Sono cose che capitano tutti i giorni. Feci due passi indietro e mi misi a distanza di sicurezza. Quelli continuavano a fissarmi." Qualche problema ragazzi? "" Il bosco è tanto grande " disse quello vecchio " prendi quel sentiero e punta dall’altra parte. "" Cammino dove voglio. "" M’hai rotto i coglioni "" Si c’hai rotto i coglioni, non ti ci voglio qui intorno " fece l’altro " vedi di camminare, e alla svelta " alzò un altro po’ la lama. Erano pronti ad ammazzarmi, lo sentivo. Avevo beccato due balordi veri. Il problema è che in certe situazioni l’incazzatura supera sempre la paura. Ci fissammo per trenta lunghissimi secondi. Servirono a farmi ragionare. Non mi sembrava la giornata giusta per morire." Andate a cagare " risposi. Poi mi voltai e mi allontanai lentamente." Non ti ci voglio più vedere da queste parti, pezzo di merda! " gridò uno dei due.Tremavo dalla rabbia ma non mi voltai e non risposi niente. Erano due carogne autentiche, due assassini, non m’ero sbagliato. Ce n’era in giro una concentrazione altissima, erano praticamente più della metà. Spesso non ne avevano coscienza, si sentivano persino buoni. Ma io li vedevo. Ne incrociavo almeno un paio al giorno, pronti all’aggressione, all’offesa, all’omicidio. Spesso gli mancava solo l’occasione giusta per confermarsi. Erano più del cinquanta per cento. Qualcuno potrebbe pensare ingenuamente che se fosse possibile eliminare quella metà le cose su questo pianeta andrebbero decisamente meglio. Errore. E’ l’errore che commettono tutti i dittatori sanguinari che popolano le pagine di storia : eliminare la metà cattiva, la metà avversa e regnare per sempre incontrastati. E’ provato che non funziona. Una volta eliminata grosso modo quella metà, la parte rimanente si scinde rapidamente in due come una cellula tumorale generando di nuovo la metà cattiva opposta a quella buona, e non importa da che parte guardiate la cosa. Avrete sempre una metà avversa pronta a eliminarvi. Umanamente, politicamente, fisicamente. Dio deve essersi divertito un sacco a organizzare il tutto. Rendete grazie a dio. E’ l’unico padre che pretende grazie tutti i giorni, all’infinito, solo per averti messo al mondo e poi abbandonato per strada. Solo per uno schizzo di sperma supersonico nell’utero dell’immensità. Ma non avevo chiesto io di venire al mondo, non avevo da ringraziare nessuno, per essere chiari.Ero furioso, ed era colpa dei due montanari coi coltellacci sporchi di terra. Me l’ero data a gambe un’altra volta. Non mi piaceva scappare. Avevo voglia di tornare indietro e prenderli a bastonate, ma non l’avrei fatto, lo sapevo. La cosa mi faceva stare male. In quei casi me la prendevo sempre con dio. Gli umani, anche i peggiori, mi sembravano sempre troppo smarriti e spaventati. Non s’orientavano, non capivano, e allora sparavano nel mucchio. Avevo sempre la sensazione che non fosse colpa loro. O almeno, non tutta colpa loro. Con chi me la dovevo prendere? Non era tutta opera di dio? E allora era con lui che me la dovevo prendere. Camminai in mezzo alla macchia a testa bassa prendendo a calci funghi marci e rami secchi. Camminai parecchio. Forse passò più di un ora. Per calmarmi camminavo e camminavo, a testa bassa, senza direzione. Dopo un po’ cominciai a sentirmi stanco e in effetti mi calmai. A un certo punto mi fermai e alzai la testa. Ero sulla cresta di un colle, ma non riconoscevo nessuna delle vette che avevo intorno. Dove madonna ero finito. Cercai di restare calmo. Ripresi fiato e mi guardai intorno. Non riconoscevo niente. Quanti chilometri avevo fatto? C’era un silenzio spaventoso. Nemmeno gli uccelli s’azzardavano a cantare. Un brutto posto, con la luce intensa. Il sottobosco non c’era più, solo vecchie querce che spuntavano direttamente dal bianco della pietra. Gli alberi non avevano foglie. La luce entrava e colpiva come voleva. Strana luce. Un brutto posto. Mai visto niente del genere. Drizzai le orecchie e rimasi in ascolto. In lontananza non sentivo più i motori sulla statale. M’ero perso. Controllai l’orologio. Mezzogiorno e quaranta. Era dalle otto del mattino che camminavo. Ero distrutto. Dovunque mi trovassi non ce l’avrei fatta a tornare indietro. Mi guardai addosso. Avevo i pantaloni strappati ed ero coperto di fango. Il solo era a picco in un punto a caso nel cielo. L’Est poteva essere indifferentemente a destra o a sinistra, davanti o dietro. Mi venne in mente la storia del muschio sui tronchi degli alberi. Mi buttai addosso a una quercia e gli girai attorno. Niente muschio. Ne scelsi un’altra. Altro giro. Niente muschio, nessuna traccia d’umidità. Era il punto più secco e anonimo dell’Appennino. Riguardai in alto. Il sole stava sempre lì, in un punto a caso. Ma poi, a che servivano i punti cardinali, la macchina? Dov’era? Dove l’avevo lasciata? A Est? A Nord? M’ero perso, ma sul serio, perso, definitivamente. Lasciai cadere il canestro a terra, poi piegai la testa e lo guardai. Era vuoto, nemmeno un fungo. Capace che morivo anche di fame. Morto di fame, nell’entroterra appenninico. Ritrovato il corpo dagli uomini della forestale in avanzato stato di decomposizione. M’accasciai a terra e poi mi sdraiai. La vista del cielo m’innervosiva. Chiusi gli occhi e provai a rilassarmi. Non avevo paura, ero stanco.Mi venne in mente di quella volta a Firenze. Vent’anni. Ero talmente estraneo e spaesato che trovai la sede della facoltà ad Aprile. Ero arrivato in città ad Ottobre dell’anno prima. Alla mensa universitaria c’arrivai a Maggio. I miei compagni mi guardavano con sospetto. Mi tenevano a distanza. " Ma dove cavolo sei stato fin’ora? " " In giro. Non riuscivo a trovarvi. " Era vero.Una sera, dopo aver mangiato qualcosa in un bar, uscii per strada e cominciai a camminare. Non sapevo né da chi né dove andare. Ero solo. Non sentivo il bisogno di nessun luogo, di nessuna stanza. A un incrocio mi fermai e cominciai a guardarmi intorno. Ero al centro dell’incrocio, in pieno centro storico. Piovigginava e faceva freddo. Guardavo l’imbocco delle strade e non riuscivo a muovermi. Ero terrorizzato. Avrei voluto sceglierne una a caso e continuare a camminare, ma non potevo. Nessuna via aveva sbocchi. Continuai a girare su me stesso senza riuscire a muovermi. Ero perso, definitivamente. Rimasi lì a girarmi sotto la pioggia e cominciai a piangere. Piansi, lo ricordo bene. Non so dopo che accadde, probabilmente mi mossi in qualche direzione, forse entrai in un altro bar, ma quel momento lo ricordavo bene, un ricordo vivissimo.Adesso ero lì, sdraiato sopra le pietre, sporco di fango, con gli abiti a brandelli. Erano passati più di vent’anni ed ero ancora perso. La paura era sparita, ero solo stanco. Inutile, non riuscivo a orientarmi. Rimasi sdraiato sopra le pietre una mezz’ora e mi riposai. Non pensai a niente. Dopo un po’ mi venne una gran fame. Guardai l’orologio. Le una e mezza. Mi alzai e presi su il canestro. Era ora di andare, ma dove? Non lo sapevo. Mi ricordai che m’ero perso. Ero più che mai senza punti di riferimento. Poi mi venne un’idea : avevo il cellulare. Ci pensai meglio. Non era un idea. Non sapevo chi chiamare e se anche l’avessi saputo, che gli dicevo, dov’ero? In un bosco qualunque in cima a un monte dalle parti della statale? Non serviva a niente il cellulare. Ecco una situazione in cui il cellulare non serviva a niente. Dovevo ricordarmene per quando m’avrebbero detto un’altra volta che ormai del cellulare non se ne fa più a meno, e che serve sempre, e che comunque in qualunque situazione può tornare utile. Adesso sapevo cosa rispondere.Le prospettive non erano belle. Feci le dovute considerazioni. Avevo due possibilità : sdraiarmi di nuovo a terra e aspettare che succedesse qualcosa o morire d’inedia, oppure, scegliere una direzione a caso e cominciare a camminare. Avevo troppa fame, scelsi la seconda. Puntai una zona che secondo i miei calcoli doveva essere grosso modo l’ovest e cominciai a scendere. L’ovest mi ricordava qualcosa. Forse tempo indietro avevo fatto mente locale e allontanandomi dalla macchina avevo considerato che alle spalle lasciavo l’ovest. Ma non era detto. Dovevo comunque scendere. Prima avevo camminato in salita, me lo ricordavo, di conseguenza adesso dovevo scendere. Mi buttai giù per la costa. Dopo pochi metri la vegetazione divenne fittissima. I cespugli di ginepro mi flagellavano le cosce. All’andata avevo fatto certamente un’altra strada. Ogni due passi rimanevo intrappolato in un rovo di more. Le spine m’agganciavano tirando lunghi fili e aprendo falle nella mia maglia. Qualcuna riusciva ad arrivare alla carne. Non importava, me ne dovevo andare da lì. Continuai a districarmi tirando come un forsennato. Quella zona doveva pur finire prima o poi. Lottai come un disperato contro le migliaia di tentacoli spinosi. Mi tenevano, mi strappavano, mi frustavano la faccia, ma io andavo. Ero un cinghiale rincorso dai lupi. Alla fine uscii allo scoperto. Mi fermai e buttai il canestro a terra. Il sudore mi colava nei graffi e nelle ferite. Mi bruciava ogni centimetro di pelle. Ero arrivato in una specie di radura a fondovalle. Ovviamente non avevo idea di dove mi trovassi, ma era già qualcosa. Rimasi fermo qualche minuto a riprendere fiato. Intanto mi guardai in giro. Avevo davanti un fosso profondo. O andavo a destra o a sinistra, oppure lo saltavo. Avevo la sensazione che costeggiandolo mi sarei allontanato dalla meta. Decisi di saltarlo e di continuare dritto. Presi su il canestro e mi avvicinai. Mi fermai sul ciglio. Era profondo tre metri. Qualcuno si stava divertendo a farcirmi il percorso di ostacoli con difficoltà crescenti. Istintivamente cercai in alto, poi mi guardai attorno. Non c’era nessuno. Mi preparai a guadare. Sul fondo del canale scorreva mezzo metro d’acqua limpida e gelata. Il fondo del canale era largo un metro e mezzo, in cima quasi tre metri. Dovevo scendere in basso, saltare e risalire. Mi preparai a farlo. Forse era l’ultimo ostacolo, forse cominciava la strada facile, la pianura, i tappeti di muschio. Dovevo solo fare un ultimo salto. M’aggrappai a un ceppo di carpini e mi lasciai scivolare verso il fondo. Il ramo era troppo corto. Ero aggrappato alla punta del fuscello, disteso lungo l’argine, ma mancava ancora un metro all’acqua. Non c’erano altri appigli. Mollai la presa e mi lasciai andare. Arrivai sul fondo in velocità, stavo per infilarmi di punta nel ruscello gelato. L’acqua gelida scorreva veloce sopra i sassi. Se toccavo quell’acqua morivo. Artigliai con la mano libera la sponda erbosa e cercai di frenare la caduta. Sentii la terra e le scaglie di pietra infilarsi sotto le unghie. Arrivai in fondo ancora troppo forte. M’impuntai con i piedi sull’argine del torrente e mi catapultai in avanti. Ruotai tutto intero e rigido sopra l’acqua e atterrai di faccia sull’altra sponda. Con la coda dell’occhio vidi il mio canestro in vimini allontanarsi portato dalla corrente. Galleggiava sulle onde. Stavo con i piedi di là e la faccia da quest’altra parte. La pancia a cinque centimetri dal pelo dell’acqua. Un ponte umano, una struttura orizzontale di ossa e carne.Rimasi così qualche secondo, chiusi gli occhi e provai a resistere, poi mi rassegnai. Feci leva con le braccia, mi sollevai un po’ e infilai lentamente dentro le gambe cercando di non cascarci tutto intero, ma appena toccato il pelo dell’acqua la corrente mi trascinò via e mi travolse fino al collo. Una scarica di aghi nelle ossa. L’acqua era come pensavo, vicina a zero gradi. M’aggrappai all’erba sulla sponda e cominciai a tirare. Urlavo e tiravo, ma la corrente era forte. L’erba cedeva. Diedi un colpo in avanti e riuscii a raggiungere con la destra un arbusto verde. Mi ci attaccai anche con l’altra mano, mi ci attaccai con tutto me stesso e continuai a tirare. Guadagnai trenta centimetri contro la corrente e mi avvinghiai a un ramo più avanti. Forse non morivo. Urlai più forte. Mi tirai fuori fino alla cinta e poi riuscii a mettere un ginocchio sulla sponda. M’arrampicai anche con l’altra gamba e alla fine venni fuori. Ero salvo. Maledetti funghi.Non mi fermai a pensare. Risalii la sponda e continuai a camminare. Non sentivo nemmeno freddo, non sentii freddo per il quarto d’ora successivo, era l’adrenalina.Poi arrivò il gelo. Continuai con le gambe di legno e i denti che battevano. Battevano così forte che ebbi paura di spezzarmeli, ma non potevo fermarmi. Continuai a camminare. Camminai e camminai coi neuroni congelati senza riuscire a pensare a niente. Non so per quanto andai avanti. A un certo punto provai anche a guardare l’orologio, ma il quadrante s’era allagato bloccandosi alle una e cinquanta esatte. Andato anche quello. Poi mi ricordai del cellulare. Il cellulare no, ti prego dio, il cellulare no. Infilai una mano in tasca e lo tirai fuori. Funzionava.Dio ti ringrazio. Segnava anche l’ora, le due e tre quarti. Almeno il telefono era salvo. La cosa mi diede forza. Mi rimisi in marcia ad andatura forzata.Raggiunsi la statale alle tre e mezza. Quando posai i piedi sull’asfalto mi venne da piangere. Di nuovo la civiltà.Sapevo dov’ero. La macchina era tre o quattro chilometri più a monte, ma ormai ero a casa. Camminai in salita di là della riga bianca e alla fine arrivai. Bella la mia macchina.Mi spogliai e rimasi in mutande. Il sole aveva scaldato il sedile di pelle nera. Mi ci accomodai sopra e chiusi gli occhi. Bello. Buttai gli abiti sul sedile dietro e misi in moto.Ero in mutande, da fuori si vedeva che ero nudo, ma non era mica reato. Forse si, ma non contava. Ingranai la marcia e partii.
Wednesday, June 13, 2007
Random (esperimenti di scrittura)
Psiche
La dottoressa stava seduta di fronte a Carlo, era una bella donna snella con un viso affilato ma piacevole e vestita con cura, nonostante questi particolari lui non era mai riuscito a vederla come possibile amante e neanche come donna.
Carlo riteneva che questo fosse dovuto alla bravura di lei nella sua professione, era psicologa, riusciva a coinvolgerlo a farlo parlare ma lei restava come sospesa su un piano diverso, distaccata: eppure a volte lui la sentiva vicina la sentiva emozionarsi ma sempre in maniera impalpabile.
Dopo lunghi anni di tentativi, più o meno convinti, solitari, aveva dovuto ammettere che se voleva dare un taglio al suo controverso rapporto con l’eroina l’unica soluzione era quella di rivolgersi ad uno specialista.
Carlo sapeva che per lui non sarebbe servito a nulla rinchiudersi in una comunità, per un brevissimo periodo c’era stato, ma solo perché ricattato dalla moglie: “o vai dentro, oppure ti lascio e non vedrai neppure i tuoi figli” questo aveva detto.
Quando aveva capito che la comunità aveva peggiorato il suo atteggiamento portandolo a fare cose che prima non aveva mai fatto decise che era meglio sopportare una separazione e combattere da solo piuttosto che ritrovarsi dopo un paio di anni allo stesso punto e per di più senza lavoro o referenze.
Lui capiva la necessità per alcuni di andare in una comunità, gente che viveva senza regole, sulla strada con problemi di salute o con la legge: in un ambiente protetto poteva pian piano ricostruirsi un codice, un sistema di vita normale anche se dall’altra parte correvano il rischio non appena usciti dalla zona protetta di ricadere a breve nella vita precedente:questo forse era il motivo che spingeva molti a rimanere nell’orbita della comunità senza riuscire a tagliare il cordone ombelicale.
Carlo invece aveva bisogno di uscire dal problema continuando a vivere normalmente: lui doveva poter fare a meno della polvere pur sapendo che era li disponibile a portata di mano.
Certo non era stato facile, erano stati tre anni lunghi e di lavoro intenso su se stesso: quattro sedute settimanali con la psicologa e per il primo anno l’assunzione di un farmaco che gli impediva di assumere oppiacei, le analisi costanti delle urine per vedere se sgarrava, passato il primo anno aveva smesso con il farmaco ma erano continuate le analisi, alla fine del secondo anno erano cessate anche quelle e lui aveva dovuto continuare il suo lavoro senza questi supporti che pur sapendo di costrizione in realtà lo avevano aiutato.
Ricordava ancora i primi incontri con la psicologa: lei entrava si salutavano e poi rimanevano muti per un’ora, pian piano Carlo si era sciolto ed aveva cominciato a raccontarle pezzi della sua vita oppure quello che gli era successo quel giorno.
Lei lo ascoltava ed a volte faceva qualche domanda, commentava poco e faceva si che Carlo dicesse le cose e le elaborasse da solo, solo una volta disse una frase che lo colpì molto e lo lasciò incerto sul significato: lui aveva raccontato di essersi esposto, sul luogo di lavoro, al posto di un collega più giovane e con un contratto di formazione in merito a certe decisioni prese dal capo reparto.
La dottoressa Paola lo lasciò finire e poi disse:”certo non deve essere difficile volerle bene”, poche parole che però lo fecero sentire forte e orgoglioso e non sapeva nemmeno perché.
Ora dopo tre anni si trovava davanti a Paola per il loro ultimo incontro, non gli pareva nemmeno vero: stava per uscire da quel rapporto ambiguo ma sicuro da quella intimità a senso unico che lo aveva accompagnato in quel periodo a volte difficile.
Non sapeva bene cosa dire se non esprimerle la sua riconoscenza incondizionata, fu lei a risolvere la situazione: si alzò andò da lui e lo baciò, un bacio da amica sulle guance ma che esprimevano un affetto e una vicinanza che lui non aveva trovato in occasioni più intime con altre donne.
La dottoressa stava seduta di fronte a Carlo, era una bella donna snella con un viso affilato ma piacevole e vestita con cura, nonostante questi particolari lui non era mai riuscito a vederla come possibile amante e neanche come donna.
Carlo riteneva che questo fosse dovuto alla bravura di lei nella sua professione, era psicologa, riusciva a coinvolgerlo a farlo parlare ma lei restava come sospesa su un piano diverso, distaccata: eppure a volte lui la sentiva vicina la sentiva emozionarsi ma sempre in maniera impalpabile.
Dopo lunghi anni di tentativi, più o meno convinti, solitari, aveva dovuto ammettere che se voleva dare un taglio al suo controverso rapporto con l’eroina l’unica soluzione era quella di rivolgersi ad uno specialista.
Carlo sapeva che per lui non sarebbe servito a nulla rinchiudersi in una comunità, per un brevissimo periodo c’era stato, ma solo perché ricattato dalla moglie: “o vai dentro, oppure ti lascio e non vedrai neppure i tuoi figli” questo aveva detto.
Quando aveva capito che la comunità aveva peggiorato il suo atteggiamento portandolo a fare cose che prima non aveva mai fatto decise che era meglio sopportare una separazione e combattere da solo piuttosto che ritrovarsi dopo un paio di anni allo stesso punto e per di più senza lavoro o referenze.
Lui capiva la necessità per alcuni di andare in una comunità, gente che viveva senza regole, sulla strada con problemi di salute o con la legge: in un ambiente protetto poteva pian piano ricostruirsi un codice, un sistema di vita normale anche se dall’altra parte correvano il rischio non appena usciti dalla zona protetta di ricadere a breve nella vita precedente:questo forse era il motivo che spingeva molti a rimanere nell’orbita della comunità senza riuscire a tagliare il cordone ombelicale.
Carlo invece aveva bisogno di uscire dal problema continuando a vivere normalmente: lui doveva poter fare a meno della polvere pur sapendo che era li disponibile a portata di mano.
Certo non era stato facile, erano stati tre anni lunghi e di lavoro intenso su se stesso: quattro sedute settimanali con la psicologa e per il primo anno l’assunzione di un farmaco che gli impediva di assumere oppiacei, le analisi costanti delle urine per vedere se sgarrava, passato il primo anno aveva smesso con il farmaco ma erano continuate le analisi, alla fine del secondo anno erano cessate anche quelle e lui aveva dovuto continuare il suo lavoro senza questi supporti che pur sapendo di costrizione in realtà lo avevano aiutato.
Ricordava ancora i primi incontri con la psicologa: lei entrava si salutavano e poi rimanevano muti per un’ora, pian piano Carlo si era sciolto ed aveva cominciato a raccontarle pezzi della sua vita oppure quello che gli era successo quel giorno.
Lei lo ascoltava ed a volte faceva qualche domanda, commentava poco e faceva si che Carlo dicesse le cose e le elaborasse da solo, solo una volta disse una frase che lo colpì molto e lo lasciò incerto sul significato: lui aveva raccontato di essersi esposto, sul luogo di lavoro, al posto di un collega più giovane e con un contratto di formazione in merito a certe decisioni prese dal capo reparto.
La dottoressa Paola lo lasciò finire e poi disse:”certo non deve essere difficile volerle bene”, poche parole che però lo fecero sentire forte e orgoglioso e non sapeva nemmeno perché.
Ora dopo tre anni si trovava davanti a Paola per il loro ultimo incontro, non gli pareva nemmeno vero: stava per uscire da quel rapporto ambiguo ma sicuro da quella intimità a senso unico che lo aveva accompagnato in quel periodo a volte difficile.
Non sapeva bene cosa dire se non esprimerle la sua riconoscenza incondizionata, fu lei a risolvere la situazione: si alzò andò da lui e lo baciò, un bacio da amica sulle guance ma che esprimevano un affetto e una vicinanza che lui non aveva trovato in occasioni più intime con altre donne.
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